PREMIO INTERNAZIONALE DI POESIA
INSIEME SI PUO’
II° EDIZIONE 2016
Il Movimento Insieme Si Può, con il patrocinio del Comune di Nicosia (EN), all’interno del programma diffusione cultura 2016, indice la II° edizione del Premio internazionale di Poesia Insieme Si Può, con lo scopo di valorizzare la diffusione di opere letterarie inedite, sensibilizzare la cittadinanza con approfondimenti concernenti la collettività e diffondere gli ideali ispiratori del Movimento.
Dettagli Concorso
Requisiti
1. Al Premio possono partecipare autori di qualsiasi età, sesso, provenienza e nazionalità.
2. Le opere ammesse al Premio dovranno essere scritte in lingua italiana, oppure in qualsiasi altra lingua o vernacolo purché tradotte in lingua italiana.
3. Le opere ammesse al Premio dovranno essere singole, inedite e mai premiate in altri Premi e Concorsi.
4. La lunghezza massima di ogni poesia, escluso il titolo, non dovrà superare i 40 versi, pena esclusione dell’opera. I racconti brevi non dovranno invece superare i 20.000 caratteri, spazi inclusi.
Sezioni
5. Il Premio si articola in due sezioni:
– Sezione A: poesia a tema libero;
– Sezione B: racconto a tema libero;
6. Ogni autore può partecipare con un massimo di n. 1 poesie per sezione; si può partecipare, quindi, con un minimo di un’opera e un massimo di 2.
Modalità di iscrizione
7. Tutti i dati inerenti all’autore e all’opera dovranno essere inseriti all’interno del modulo d’iscrizione allegato al presente bando.
8. Il testo dell’ opera in concorso dovrà pervenire alla Segreteria del Premio esclusivamente in versione digitale, come allegato (pdf o word) a messaggio di posta elettronica all’indirizzo premio.insiemesipuo@gmail.com. Non saranno prese in considerazione opere pervenute a mezzo spedizione postale tradizionale o in qualsiasi maniera diversa da quella descritta nel presente bando.
9. In caso di partecipazione con più di un’opera (si veda il precedente art. 6), l’autore dovrà inoltrare un singolo Modulo d’iscrizione per ciascuna poesia iscritta. In altri termini, non è possibile iscrivere più poesie con un singolo Modulo d’iscrizione.
10. Le poesie saranno valutate dalla Giuria del Premio in forma rigorosamente anonima. Pertanto, tutte le opere inoltrate a mezzo mail dovranno contenere, pena esclusione dal Premio, solamente il titolo e il testo della poesia (con eventuale traduzione se scritta originariamente in vernacolo o in lingua diversa dall’italiano), senza alcun tipo di riferimento all’autore e senza ulteriori elementi.
11. A parziale rimborso delle spese organizzative è previsto un contributo di partecipazione, a carico dell’autore, di Euro 8,00 (otto) per ciascuna poesia, Euro 10,00 (dieci) per ciascun racconto breve. In caso di partecipazione ad entrambe le sezioni il contributo sarà pari ad euro 15,00 (quindici).
12. Il contributo dovrà essere versato esclusivamente a mezzo bonifico bancario, sul conto corrente intestato a Movimento Insieme Si Può, presso Banca Prossima (IBAN IT33C0335901600100000134449) avendo cura di indicare nella causale “Partecipazione Premio Letterario Insieme Si Può”
13. La mail dovrà quindi contenere: a) opera partecipante in word o pdf; b) modulo di partecipazione; c) ricevuta del bonifico.
14. La mail per l’iscrizione al Premio dovrà essere inviata entro il 12 Dicembre 2016. Ogni iscrizione riceverà conferma di ricezione stesso mezzo.
Giuria e Risultati
15. La Giuria del Premio Internazionale Insieme Si Può è composta da personalità del mondo sociale e letterario. Il giudizio della giuria è inappellabile. Ogni giurato selezionerà una rosa di opere finaliste, attribuendo un voto ad ogni opera. La classifica così formata, dalla somma dei voti dei giurati, determinerà la graduatoria finale.
16. La Segreteria del Premio aggiornerà gli esiti delle selezioni e darà comunicazione delle opere finaliste attraverso la pagina web del movimento www.insiemesipuo.info, oltre a contattare direttamente gli autori finalisti e premiati.
Premi
17. Per ogni sezione saranno individuati:
– Le prime 3 opere classificate, dalla 1° alla 3°;
– Eventuali ulteriori opere meritevoli di segnalazione speciale della Giuria o di menzioni d’onore.
18. Gli autori ai quali la Giuria assegnerà la Menzione d’onore o una segnalazione speciale riceveranno un attestato di merito. Gli autori che si classificheranno ai primi tre posti di ciascuna sezione riceveranno un trofeo e un attestato di merito con motivazione.
19. Le esatte posizioni di classifica delle opere finaliste saranno comunicate soltanto durante la cerimonia di premiazione. I premi previsti dai precedenti articoli saranno attribuiti e consegnati esclusivamente
agli autori che presenzieranno alla cerimonia di premiazione stessa, salvo casi di straordinaria eccezionalità sui quali la Segreteria del Premio si riserva diritto d’insindacabile arbitrio. Nessun premio sarà dunque spedito o consegnato in altre forme, sedi e date. È comunque prevista la possibilità di farsi sostituire da un delegato appositamente nominato, e preventivamente comunicato alla Segreteria del Premio.
Cerimonia di Premiazione
20. Gli autori delle opere finaliste (si vedano i precedenti art. 15 e 17), non appena invitati, dovranno confermare quanto prima alla Segreteria del Premio, a mezzo e-mail, la loro partecipazione all’evento di premiazione.
21. La cerimonia di premiazione, alla presenza di personalità locali, si
terrà a Nicosia (EN) il 12.02.2016, in occasione del secondo anniversario della fondazione del Movimento Insieme Si Può.
22. La Segreteria del Premio comunicherà tempestivamente il luogo esatto dell’evento e confermerà la data della cerimonia.
23. Non è prevista alcuna forma di rimborso spese per gli autori che presenzieranno all’evento; la Segreteria del Premio, tuttavia, si preoccuperà di fornire a ciascun interessato ogni supporto informativo atto a mitigare i disagi logistici.
Varie e conclusive
24. Il contenuto delle opere in concorso non dovrà ledere in nessun modo il buon gusto e i comuni valori etici, culturali e religiosi, pena esclusione dell’opera dal Premio.
25. I file di testo pervenuti non saranno in alcun modo restituiti.
26. Con la partecipazione al Premio Internazionale Insieme Si Può, ciascun autore garantisce che l’opera inoltrata è frutto della sua creatività, che è inedita e che non è mai stata premiata in altri Premi e Concorsi.
27. Con la partecipazione al Premio, ciascun autore concede autorizzazione al trattamento dei propri dati personali, solo per le finalità previste dal Premio e in linea con quanto stabilito dal D. Lgs. 196/03.
28. La partecipazione al Premio Internazionale Insieme Si Può implica la totale accettazione del presente regolamento.
Palermo, Luglio 2016
Segreteria Premio Insieme Si Può
www.insiemesipuò.info
premio.insiemesipuo@gmail.com
Cell. . +393382072077
SCHEDA DI PARTECIPAZIONE
Alla Segreteria del Premio Internazionale Insieme Si Può – Seconda Edizione
Il /La sottoscritt___ _______________________________________________________________,
nat__ a __________________(prov. ___ ) il ________________, residente a __________________
_____________ prov. ____ , CAP _________, via ______________________________ nr. _____, tel. ____________________, cell. __________________,E-mail ___________________________,
DICHIARA
▪ di aderire al
PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE INSIEME SI PUO’ – II Edizione
accettando le norme del relativo bando
▪ di essere l’autore del/i seguente/i elaborato/i in concorso, inedito/i e non vincitore/i di altri premi
Titolo: ________________________________________________________________________;
Sezione ____
Titolo: ________________________________________________________________________;
Sezione ____
▪ di aver appreso del Concorso da (specificare organo di stampa o altra fonte) ________________________________________________________________________
AUTORIZZA
▪ ai sensi della legge n. 196 del 2003 (Privacy) al trattamento dei dati per fini istituzionali.
Firma
Località e data______________________________ _____________________________
Il Movimento Insieme Si Può assicura il trattamento dati personali nel rispetto della Legge 196 del 2003 (Privacy) e si impegna a non utilizzare i dati raccolti se non ad esclusivo uso statistico o analogo al presente.
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Contest 2015
Il Movimento Insieme Si Può, con il patrocinio del Comune di Nicosia (EN), all’interno del programma diffusione cultura 2015, indice la I° edizione del Premio internazionale di Poesia e Narrativa “Insieme Si Può”, con lo scopo di valorizzare la diffusione di opere letterarie inedite, sensibilizzare la cittadinanza con approfondimenti concernenti la collettività e diffondere gli ideali ispiratori del Movimento.
Classifica dei Finalisti
Nome | Titolo | Tipologia | Posizione | Presente Si/No |
---|---|---|---|---|
Giuseppe Barcellona | Vite Senza Speranza | Racconto | Finalista | Si |
Lina Giuffrida | Essere Speciale | Racconto | Finalista | Si |
Pietro Garuccio | Il Bongiolo | Racconto | 3° | Si |
Pietrina Agata Pappalardo | Sceglierò Te | Poesia | Finalista (premiata 3°) | Si |
Tina Ferreri Tiberio | È come se… il vento | Poesia | Finalista (premiata 2°) | Si |
Giuseppe Blandino | Monito | Poesia | 3° (premiato 1°) | Si |
Ferdinando Romito | Ascolta… il vento | Racconto | 1° | Si |
Calogero Sorce | Penso a Palermo | Poesia | Finalista | No |
Calogero Sorce | Facìa Assà Friddu | Racconto | 1°, non premiato | No |
Tania Krassowschi | La Solitudine | Poesia | Finalista | Si |
Maria Rosaria Filangieri | La Crisi | Poesia | Finalista | Si |
Francesco Billeci | Lu Picciriddu d’Artofonti | Racconto | Finalista | Si (del) |
Giuseppe Teodoro | L’Amore Senza Tempo | Poesia | Finalista | No |
Giovanna Scutiero | In Un Momento | Poesia | 2°, non premiato | No |
Nazareno Caporali | Jeta e Pietro | Racconto | 2°, premio da consegnare | No |
Clicca sul titolo dell’opera per leggerla.
Amore senza tempo
L’Amore senza tempo,
è il pathos che coglie all’improvviso,
alquanto impreparato,
che assume la forma di un sorriso
o di uno sguardo rubato.
L’Amore senza tempo
bussa al mio cuore di soppiatto,
mi accende, m’inebria di profumo,
poi mi rende sopraffatto,
come naufrago in terra di nessuno.
L’Amore senza tempo
s’inerpica incestuoso,
scalando cespugli di passione,
poi, vorticosamente dispettoso,
il cuore mio vacilla d’emozione.
L’Amore senza tempo
ha il volto di una stella,
che il cielo mi ha prestato per incanto.
Il tempo di vederla, luminosa e bella,
il sospiro di averla fra le braccia, poi fugge in un istante.
Ascolta...il vento
Erano sedute lì, sul muretto basso di pietre che faceva da confine al piccolo podere, aspettando già da un bel pezzo. La luna non si era ancora levata, e i contorni di ciò che restava del vecchio castello si stagliavano netti nel cielo terso del pomeriggio inoltrato.
«Credi che arriverà?» chiese Rita.
La donna più giovane sorrise di un sorriso accusatorio. «Certo che arriverà. Si ritorna sempre, quando non si ha più nulla da chiedere alla vita.»
E in effetti, al di là della vallata sottostante, oltre il piccolo fiumiciattolo che divideva in due un folto canneto, tra la ricca vegetazione, i pascoli e gli altri poderi coltivati ad alberi da frutto, un’esile figura bianca si faceva faticosamente strada salendo per la mulattiera appena accennata, ormai in disuso da tempo. Di tanto in tanto quella figura si fermava, forse per prendere fiato, guardava in su, riprendeva la sua faticosa ascesa, inerpicandosi attraverso quel canneto che, dalla parte bassa del fiume, era costituito da sottili e fragili canne, rachitiche, dalle quali anche le solitarie foglie che da ciascuna pendevano verso il terreno, sembravano non essere cresciute più di tanto. Al contrario, il canneto al di qua del fiumiciattolo era una fittissima selva di maestose pertiche, dritte a toccare il cielo, i cui fusti larghi quanto il medaglione appeso al collo della dottoressa Dolores, erano ben piantati in terra e le foglie, abbondanti e rigogliose, facevano ad esse degno corollario.
«Eccolo. Che ti avevo detto?» continuò Nadia, distogliendo solo per lo stretto necessario lo sguardo dallo scialle che stava abilmente confezionando con i ferri da lavoro.
L’uomo diradò le ultime canne che gli ostruivano il passaggio e guardò verso di esse. Provò un vago senso di smarrimento, nel vederle sedute nel medesimo posto che egli aveva occupato per così tanto tempo, posizione dalla quale soleva stare ore e ore a scrutare la vallata sottostante e rimuginare sui suoi pensieri pesanti come macigni, ben oltre i confini visibili dell’umana natura. C’era, poi, anche una fastidiosa sensazione in quelle presenze, che non riuscì a definire.
Riprese a salire, questa volta più celermente, deciso a riprendersi ciò che era sempre stato suo. Ne aveva un impellente bisogno.
Si fermò davanti a loro e, sebbene fosse di gran lunga più alto delle donne, la linea dei loro sguardi lo poneva al di sotto di esse, per via del terreno fortemente scosceso.
«Avrei un desiderio…» disse, «…sedermi lì dove ho sostato per tanto tempo e dove adesso voi siete, sedute a far nulla.»
Elena, la meno giovane, lo guardò indifferente e lui, attraverso le lenti dalla montatura dorata e sottile, s’incontrò invece con gli occhi di Rita, mansueti e con una leggera nota di mestizia nel fondo; poi fu la volta di quelli di Nadia che, proprio in quel momento, si sollevarono dallo sferruzzare frenetico delle mani, duri e accusatori. Rimasero così per qualche istante, al termine del quale, senza scomporsi più di tanto, ella si levò in piedi. «Prego, dottore.» lo apostrofò, sarcastica. «Del resto la riconoscenza, così come l’umiltà, non sono virtù di questo mondo. Non è forse così?» Nadia fece un muto cenno col capo alle altre sorelle, esortandole a sollevarsi. Così fecero, ognuna col suo intimo modo di fare. Tutte e tre arretrarono dal muretto di qualche passo, senza che in alcuna di loro nascesse l’intenzione di andar via.
L’uomo in camice bianco, a dispetto della sua età prossima alla fine, che avesse venti o cent’anni nulla cambiava, si sollevò agile sul muretto di pietre e trovò posto lì dove erano sedute le tre donne; e nello stesso istante in cui adagiò penzoloni le gambe stanche nel vuoto, la sua inquietudine crebbe e d’un tratto si chiese, per la prima volta, cosa lo avesse spinto a ritornare lì dopo così tanto tempo.
Strinse un poco gli occhi, e lo sguardo cominciò ad errare senza una precisa meta sulla valle, come tante volte aveva fatto in passato, coi morsi della fame attanagliargli lo stomaco, le bolle per il continuo zappare bruciargli le mani e la voglia di farla finita inondargli la mente.
Ma adesso no: adesso non c’erano crampi e il suo stomaco, a dispetto della sua magra figura, era ben pieno di cibo superfluo; non c’erano cicatrici, né piaghe, né rossori, in quelle sue mani ben curate. Forse solo qualche lieve callosità residua e resistente persino allo scorrere del tempo. Non c’erano pensieri autolesionistici, a riempire la sua mente, ma solo agende colme di appuntamenti e numeri di telefono, convegni e sale operatorie, infermiere e donne, e…
Laggiù, in fondo, oltre i poderi che ancora resistevano intatti al progresso, l’edificio bianco della clinica, della sua clinica, svettava pugno bianco nel verde circostante. L’aria era tersa come non mai, e non c’era un alito di vento. Cosicché riusciva persino a scorgere qualche sagoma fuggevole dietro le finestre dell’ultimo piano. O forse erano soltanto illusioni, illusioni di voler vedere per forza anche quello che non si può. E poi c’erano tutti quei colori brillanti, netti, decisi, come soltanto in questa porzione di mondo il sole, ormai prossimo a scomparire dietro l’orizzonte, riesce ad offrire.
Era ormai solo, e da solo doveva disperatamente comprendere del perché l’ansia crescesse a dismisura, anziché stemperarsi nell’ambiente circostante, così incline a poter accettare i suoi patimenti.
Cosa lo preoccupava? Che cosa gli serrava la gola e gli faceva battere forte il cuore nel petto?
Riaffiorarono lontani ricordi sopiti, ricordi che volutamente erano stati ricacciati nei cassetti più nascosti dell’io cosciente. Si ritrovò bambino, ad inseguire lucertole su quello stesso muro, chiamando istintivamente e distrattamente, senza ottenere risposta alcuna; si ritrovò ragazzo, ad inseguire su quello stesso muro ancora, nelle notti lunari e quiete, il suo sogno di fuggire via per sempre da quel podere che con tanta fatica, fisica e morale, era costretto a coltivare nella povertà più assoluta, maledicendo i morsi della fame che pane e cipolla non riuscivano a placare.
Poi era arrivata la svolta, quella manna dal cielo, unica possibilità di riscatto. Ed egli di quella manna se ne riempì la bocca, le mani, le tasche dei calzoni e della misera giacca, fino a dimenticarne il sapore dolce e ristoratore. Ma si sa, quando si sta bene ed in salute non ci si preoccupa delle malattie: è quando queste sopraggiungono, improvvise e temibili, che ci sconvolgono a tal punto da ritornare ad apprezzare pienamente le cose semplici ed importanti della vita.
Tutti quei pensieri lo attanagliavano, animale preso alla tagliola, e più tentava di divincolarsi, più i denti stringevano, segavano, dilaniavano carni e ossa e ancora più in fondo… l’anima.
E si alzò il vento.
Dapprima un accenno di brezza, lieve lusinga e sussurro di amanti; un canto, dolce di sirena. Poi rinforzò un poco, e già il camice bianco cominciò a fluttuare nell’aria mossa. E ancora il vento aumentò, e tutto prese ad agitarsi pericolosamente: mille refoli sibilavano, infilandosi nel fogliame denso degli alberi, nei più nascosti anfratti dell’erba, nei labirinti contorti delle canne piegate…
Panas… sembrò da qualcuno udire …è il lamento delle Panas… e il suo io ne rimase sconvolto.
Scese dal muretto, più dalla forza del vento sospinto che da una sua precisa volontà di compiere quel gesto.
Guardò verso il canneto, quello al di qua del rivo: le canne erano piegate dalla forza del vento, diventato nel frattempo impetuoso, quasi dovessero staccarsi da un momento all’altro, tanta era la furia alla quale erano soggette.
Abbiamo tanto desiderato… abbiamo tanto sofferto… urlava il vento, nelle sue orecchie e molto più dentro di sé …Che resta di noi, se non una parte di noi stesse?La nostra stessa nuova vita benedetta… Almeno loro… e il nostro sacrificio.
Il dottore spinse lo sguardo oltre, al di là del fiume, verso il canneto dai suoi frutti più esili. Strinse gli occhi, fino a sottili stringhe, e ciò che vide lo lasciò più immobile di una roccia sotto una tormenta di neve: le sottili canne, anch’esse in balìa del vento, erano quasi parallele al terreno, ma piegate dalla parte opposta a quelle del canneto superiore. Era come se soffiassero venti dagli opposti punti cardinali, e agissero sulle porzioni di terra a loro assegnati in maniera indipendente l’uno dall’altro.
Nulla le misere canne potevano; alcune volavano via con esso, strappate alla loro terra così, come fossero state dei semplici fuscelli che, sibilando, si perdevano nel buio della notte ormai sopraggiunta; altre si dimenavano, qua e là, nel goffo e vano tentativo di resistere a forze troppo grandi per essere contrastate.
E il vento urlava, potente, e molto i suoi ululati somigliavano allo straziante lamento di neonati lasciati senza né cibo né calore.
Cominciò a piovere, e grandi gocce dolci cadevano sulla terra sferzata dai venti, e grandi gocce amare solcavano il viso dell’uomo, arato da profonde rughe. Una violenta raffica gli strappò gli occhiali dal naso, che si persero a rincorrere le misere canne strappate dalla loro terra, e dentro i lamenti degli Istuminzu. Sentiva il cuore battere fin quasi a scoppiare, e nella testa il turbinio di immagini e sensazioni, che solo in apparenza poteva essere paragonato all’uragano attorno a sé che tutto scuoteva e strappava, di quelle misere ed esili canne, persino la loro stessa natura, gli bloccava i pensieri in una morsa letale.
Sottilissimi granelli di sabbia, trasportati in un vortice dal vento, gli accecarono gli occhi. Eppure…
Eppure rimasero davanti a sé, nette e distinte, le immagini delle canne forti e rigogliose pendere verso est che, fiere, resistevano alla violenza del vento; e pure nette e distinte apparivano, inspiegabilmente, anche le esili canne, decimate e inermi all’impeto del vento, piegate fino al limite dell’imminente spezzarsi all’unisono, verso ovest. E se è vero che gli occhi della mente non possono chiudersi, così come quelli della memoria, fu quello il momento nel quale egli tutto cominciò a comprendere, di sé, della sua vita, del perché avesse avuto l’impellente desiderio di ritornare al suo punto di origine dopo così tanto tempo.
Intanto i canti delle Panas, canti di dolori fisici e sofferenze dell’anima per il distacco imminente dalle loro creature, e quelli degli Istuminzu, alcuni con occhi appena abbozzati, altri già in grado di versare lacrime future che non sarebbero state versate mai, s’intrecciavano, si scioglievano, si rincorrevano come fanno le farfalle nell’idea impellente di ricongiungersi per sempre.
All’improvviso, apparve dal canneto una donna che, con andatura stanca, si diresse verso il fiume, cantando, anch’ella degli stessi canti del vento. E così cominciarono a scendere verso il fiume molte altre di quelle strane figure, dalle mura del castello, dai poderi vicini, dalle coste sinuose del fiume. Ella, per prima, chinatasi sulle crespe onde dell’acqua, cominciò a lavare.
Il dottore cadde sulle ginocchia e affondò il viso nelle mani tremanti; lo sollevò dopo un poco, sapendo in cuor suo che quella figura non poteva che essere Lidia, la madre che non aveva mai conosciuto, se non in rare, sbiadite, fotografie del tempo. Ma se anche lei era una delle Panas, che di notte andavano errando lungo il corso del fiume a lavare la tutina dei suoi bambini mai stretti al seno, questo significava che anch’ella aveva sacrificato la sua vita per lui.
E, per contro, che cosa aveva fatto, lui, nella sua vita? Guardò le forti canne in balìa del vento, e comprese che esse tentavano di resistere all’impeto dell’avverso destino con tutte le loro forze, per donare vita e regalare baci e carezze infinite ai loro frutti più preziosi. Anche le deboli canne tentavano di sopravvivere, con la forza naturale insita in ogni forma di vita volta alla sua autoconservazione. Ma che cosa potevano, loro, indifesi e nudi com’erano? Volavano semplicemente via, senza neanche fare rumore.
Si era sostituito al Destino; aveva richiamato a sé tutta la potenza del Vento, di accarezzare come brezza o strappare come uragano. Era un dio, capace di porre rimedio ad un errore o ad una leggerezza, persino in grado di soddisfare i desideri di chi a lui si rivolgesse, di essere libere e di decidere per sé, ma non per gli altri.
Maledisse il giorno in cui incontrò la dottoressa Dolores, quella che aveva fino al pomeriggio considerata la sua personale manna dal cielo. Ma non può esserci alcun pane caduto dal cielo senza fede. Tutto il resto non è altro che falso nutrimento.
Lacerato dai rimorsi, come azzannato da una muta di cani rabbiosi, pianse amaramente.
«Non maledire, mai. » disse una voce dietro di sé. «Ascolta… il vento.» E il ricordo delle tre donne che aveva trovato al suo posto, quando era arrivato in quel luogo, riaffiorò dai turbinii della sua mente. L’uomo volse lo sguardo verso di esse. Erano ancora lì, immobili nel vento come colonne, i loro occhi facce dissimili di una stessa medaglia: tre sguardi totalmente diversi tra loro ma stessi caratteri somatici.
«Il vento del Fato…» aggiunse senza trasporto alcuno Elena.
«Il vento degli uomini…» urlò minacciosa Nadia. «Non hai ancora sofferto abbastanza.»
«Lascialo in pace, una buona volta.» replicò Rita, la più amorevole delle tre «A tutti è concessa un’altra possibilità, prima che sia troppo tardi. Che vento vuoi seguire, Edoardo? È giunto il momento di decidere. E la tua decisione sarà per sempre.»
«Ascolta… il vento.» ripeté ancora Elena, dall’alto della sua sapienza.
Il dottore mosse leggermente le labbra farfugliando qualcosa che si perse nei canti del vento.
«Hai scelto bene.» disse Nadia, che non aveva mai smesso di lavorare al suo scialle.
E il vento, cessò.
E le canne, piegate ma non spezzate, ritornarono a svettare verso l’alto, fiere, ad indicare un cielo che di lì a poco sarebbe ritornato limpido e luminoso di stelle.
«Posso… morire in pace…» si disse Edoardo, sollevandosi a fatica sul muretto di pietre e lasciando che il suo corpo stanco vi si adagiasse piano, lento come lente stavano scomparendo ai suoi occhi le donne, ognuna se stessa, ognuna parte di sé.
Chiuse gli occhi, ma la sua mente rimase vigile ed attenta ancora per molto, molto tempo. Aveva freddo, e per questo si strinse forte le braccia attorno la petto.
Quando lo ritrovarono, tre giorni dopo, possedeva un accenno di sorriso sulle labbra livide, il volto liscio senza ruga alcuna, e uno scialle fatto a mano, a coprirlo per intero.
È come se...il vento
E’ come se…
all’improvviso il mondo
col suo mistero
si svelasse.
E’ come se…
un suggello racchiuso
in uno scrigno,
si rivelasse.
Un germoglio del suo seme
si allieta,
l’onda del mare nell’ oceano
si dilegua,
similmente la sua anima ha ardito
dissolversi
ai confini del cuore.
Affascinato, un alito di vento
nicchiava,
nel silenzio
i turbinii del cuore avvolse,
tutti gli scricchiolii infranse.
Un guizzo. Tutto le strappò e
nel nulla fulmineo
scomparve.
Essere Speciale
Siamo seduti ancora intorno al tavolo in cucina. Ho appena offerto il dolce ai commensali, c’è un gran trambusto rispetto agli altri giorni. Forse abbiamo un tantino esagerato col vino perché si parla a voce alta ridacchiando, l’atmosfera è giocosa e rilassata, ma non per tutti. Mia figlia Aurora sembra non essere a suo agio, se ne sta seduta accanto al padre con espressione scocciata, non parla con gli zii né coi pestiferi cugini che, pur coetanei, seguitano a questionare e trastullarsi senza coinvolgerla. La osservo da qualche minuto e non mi piace quello che vedo, il cuore mi si restringe fino a divenire un nero puntino. Sarò fatta male, protettiva all’eccesso, troppo di parte, ma mi sembra scorretto, nessuno parla con lei. Lo so da anni che per mia figlia le difficoltà sono maggiori, tuttavia contavo nella solidarietà umana che invece scarseggia. Con molta probabilità il suo malumore è dovuto alla compagnia sbagliata, il mio intento nell’invitare gente era proprio l’opposto, è chiaro che non ha funzionato. Quei tre cugini maschi dodicenni di certo la confondono, peraltro non eccellono in buona educazione, lo riconosco. Non si azzardano a schernirla come fanno gli altri, ma la ignorano con indifferenza facendo comunella, non so cosa sia peggio. Aurora per loro è un nome astratto, una forma umana virtuale priva di consistenza. Per me invece è una figlia adorabile, sebbene sia venuta al mondo sedici anni fa con un corredo cromosomico più numeroso che le ha regalato mille complicanze, un viso con gli occhi da orientale e un sorriso disarmante. Che bello sarebbe se il mondo fosse popolato solo da esseri speciali, quanti problemi in meno. Sospiro e mi alzo con calma, covo un profondo risentimento ma faccio del mio meglio per non farlo notare. Vado a preparare il caffè, alla fine di un abbondante pranzo domenicale, è d’obbligo.
Sono stata io a voler ripristinare i rapporti interrotti con mia sorella Susanna e la sua famiglia, mi sono decisa a fare il primo passo da recente in nome di un’armonia domestica tra noi mai esistita. Voglio proprio vedere se riusciremo davvero a superare le divergenze. Per anni ci siamo concesse qualche telefonata sporadica e parecchie malignità. Io mi sentivo dalla parte della ragione perché difendevo la dignità di mia figlia, lei pensava lo stesso da parte sua. Derisa e mal giudicata un po’ da tutta la parentela avevo deciso di tranciare di netto ogni frequentazione, concentrandomi solo sulle difficoltà quotidiane, seguendo la crescita di Aurora e sopprimendo il bisogno di comunicare col mondo. Mi sentivo sola contro tutti, emarginata, ferita nel profodo, non mi servivano le belle parole di facciata, gli ipocriti e goffi tentativi di condivisione teorica della sventura. Condivisione di che? Non prendiamoci in giro! Nessuno aveva mai desiderato scambiare i miei problemi coi suoi. La mancanza di tatto e l’insensibilità della gente mi avevano sempre irritata e mia sorella Susanna era stata la prima a deludermi. Appena nata mia figlia, pensando di non essere ascoltata, l’aveva commiserata definendola senza mezzi termini, una povera <mongoloide> priva di intelletto e speranze. Per sua disgrazia l’avevo sentita, le spregevoli affermazioni mi avevano ferita più di una coltellata.
Così mi ero isolata dal mondo per salvaguardare mia figlia quanto più possibile dalla perfidia generale. Volevo a ogni costo evitarle dispiaceri o forse sfuggirli io stessa ma non era affatto semplice. Se mia sorella non era stata in grado di comprendere il dolore che mi provocava persino una terminologia sbagliata, come avrebbero potuto farlo gli estranei?
Inculcavo ad Aurora di essere una bambina speciale, una persona con una marcia in più, ma non lo pensavo davvero, lei mi seguiva con lo sguardo attento sorridendo felice, io non sapevo comprendere cosa le arrivasse di quei concetti astrusi. In un mondo fatuo in cui si esalta solo la perfezione in tutte le sue accezioni non c’è posto per i mediocri e nemmeno per i secondi,figurarsi per chi parte svantaggiato per colpa del fato. Io ero costretta a gioire di minuscole e lente conquiste giornaliere, non sarei mai stata la mamma di una numero uno, cercavo di farmene una ragione. La mia rabbia repressa esplodeva in reazione banali, come desiderare per mia sorella e tutti coloro che si permettevano di parlare male di Aurora, dei guai ben più gravi dei miei! Non a caso avevo gioito quando Susanna aveva avuto problemi di concepimento col marito infedele e quando era rimasta incastrata in una gravidanza plurigemellare che l’aveva trasformata in madre e moglie pentita. Tre figli gemelli e un matrimonio a rischio mi erano sembrati una equa punizione per lei. Ma quel livore non aveva di certo alleviato le mie pene o migliorato le condizioni di mia figlia. Il tempo e le contrarietà ci avevano rese entrambe deboli e vulnerabili permettendoci di affievolire i rancori e superare i contrasti.
Verso il caffè nel servizio di tazzine colorate dipinte con faccine sorridenti, che ha scelto Aurora al supermercato. A proposito dov’è? Non è più seduta al suo posto. Sarà andata in bagno o in cameretta per sfogarsi col coniglio di peluche, suo compagno di giochi da quando era neonata. La lascio libera un pochino e poi vado a vedere se vuole tornare a farci compagnia, in fondo la capisco, preferisce eclissarsi piuttosto che fare le veci della carta da parati. Aurora è ormai un’adolescente sebbene dimostri un’età inferiore, è in grado di capire gli umori e le intenzioni altrui, ha una spiccata sensibilità e tanta voglia di vivere. Il suo carattere amabile mi affascina e preoccupa, si fida di chiunque, non ha sovrastrutture o pregiudizi finché si sente corrisposta, ma guai a farle un minimo torto o dimostrarsi freddi, lo capta in un secondo e perde ogni interesse. Con i cugini non riesce ad andare d’accordo. Ho sbagliato io a immaginare il contrario.
Bevo il caffè a sorsi insieme agli altri e osservo i miei ospiti, in fondo devo anch’io imparare a conoscerli meglio. Mio marito Mauro parla di auto col cognato Gregorio, disquisiscono da ore circa i nuovi motori a metano, ragionano correttamente anche se a me sembrano un po’ alticci. Susanna ha già bevuto il caffè e sta richiamando all’ordine i tre figlioli, i quali hanno appena proposto di fare del corridoio di casa mia un campetto da calcio. Che brillante idea! Sto per sbottare in uno dei miei sproloqui da megera, ma ecco che apro la bocca e soffoco. Per colpa loro, il caffè mi va di traverso causandomi una fastidiosissima tosse intermittente. Tutti si danno da fare per salvarmi, benché io stia per morire asfissiata, li fulmino con lo sguardo. Penso seriamente che, da oggi in poi, ci incontreremo per fare dei pic- nic in campagna, tanto per evitare.
Tossicchiando vado a cercare Aurora. Il bagno è libero, in cameretta non c’è nessuno, faccio un rapido giro di ricognizione nell’appartamento, la chiamo di continuo a voce alta, niente. Forse è sul terrazzo sebbene io le abbia sempre raccomandato di non andare da sola. Un buco nell’acqua. Comincio a preoccuparmi: “Mauro aiutami, non trovo più Aurora!” Mio marito sbianca, si alza di scatto e ricontrolla con cura anche i nascondigli più improbabili di casa nostra. Gregorio, Susanna e i ragazzi si mettono in allarme e danno con spontaneità una mano. Sembra una disordinata caccia al tesoro ma c’è l’angoscia disegnata sui nostri volti. Sprechiamo minuti preziosi per appurare che in casa Aurora non c’è, poi ci rendiamo conto che la porta d’ingresso è stata aperta. E’ fuggita da casa. Ma perché? Con quale stato d’animo? Lì fuori da sola lei non è mai stata. Il panico mi coglie d’improvviso, non mi reggono le gambe e ho il cuore in aritmia, crollo sul divano col volto inondato di lacrime, non avrei mai immaginato di vivere una tale circostanza. Mauro, Gregorio e Susanna escono in contemporanea dirigendosi alla cieca per le strade limitrofe in ogni direzione possibile, i ragazzi setacciano in lungo e in largo il residence e il giardino condominiale, io resto in casa attaccata al telefono prossima a un infarto. Non riesco a fermare le lacrime, mi sento angosciata, tanto in colpa, non ho saputo cogliere il suo disagio pur avendo notato il suo evidente disappunto. Perché, perché non l’ho cercata subito invece di pensare al caffè? Adesso lei è in giro per la città, dispersa in un mondo pericoloso che sconosce. Nella testa un turbinìo di pensieri, la immagino in mille contesti rischiosi e letali. Aurora non sa attraversare, non è capace a orientarsi, non conosce nessuno, non ha mete precise, non sa difendersi da persone malvagie o farabutti che possono approfittarsi della sua condizione. Non so nemmeno se è uscita con la tuta che indossava o si è cambiata. Controllo in camera sua, manca la giacca a vento beige dunque si è preoccupata di metterla. Mi sembra già d’impazzire, mi vedo rinchiusa in galera accusata di totale negligenza, io che ho speso metà della vita in funzione del suo benessere, io che le ho insegnato tutto, anche a leggere e far di conto, quando le maestre sostenevano che non era in grado. Mi sento colpevole di eccessiva protezione, forse avrei dovuto lasciarle affrontare da sola qualche quotidiana attività pratica e sociale.
Controllo il cellulare e il telefono di casa, il tempo passa e nessuno chiama. Ma quanta strada avrà mai percorso in poco più di mezz’ora? Quest’attesa mi distrugge. Comincia anche a piovere. Dio, fa che la trovino presto sana e salva, che io non debba rivolgermi alle forze dell’ordine! Fa che incontri solo brava gente, prometto di ricredermi su tutto.
Entrano come furie i ragazzini a riferire: “Zia Claudia abbiamo cercato in ogni piano, sulle terrazze, in ciascun angolo nascosto, garages e cantine, in giardino, sopra gli alberi e dietro ogni cespuglio, pure vicino i cassonetti dell’immondizia. L’abbiamo chiamata tanto, ma lei non risponde. Forse lo fa apposta perché è arrabbiata con noi. Però abbiamo visto che nel condominio qui accanto c’è il cancello aperto, forse è andata lì. Se tu ci dai il permesso, controlliamo… zia però ti dobbiamo confessare che abbiamo paura per lei, e se fosse stata rapita da una banda di delinquenti? Non sarebbe il caso di chiamare la Polizia? Loro sanno come salvarla, lo vediamo sempre in TV!” Le parole accorate dei tre discoli mi sconvolgono, mi fanno capire che tengono ad Aurora e che, a loro modo, le vogliono bene. Do loro il permesso di entrare nell’altro condominio ostentando ottimismo: “Andate ragazzi, cercatela bene, vedrete che riusciremo a trovarla prima di essere costretti a chiamare la Polizia. Ma state attenti e ritornate presto a riferirmi.” Partono spediti in missione. Sprofondo nei sensi di colpa anche nei confronti dei miei nipoti, forse è il caso di rivedere le mie priorità, qualcuno lassù vuole castigarmi, illuminarmi.
Squilla il cellulare, è Mauro che mi comunica di non averla ancora trovata, è inquieto, confuso e mi chiede notizie degli altri. Lo ragguaglio dicendo che non ho alcuna novità, poi mi lascio sopraffare dallo scoramento, ogni minuto che passa equivale per me a una lacerazione del cuore sempre più profonda. Sono atterrita, mia figlia potrebbe essere ovunque e con chiunque, viva o morta, con tutto ciò che accade ogni giorno c’è poco da stare sereni! E’ già trascorsa un’ora, la più orrenda della mia vita. Figliola perché mi hai fatto questo, dove sei?
Uno dopo l’altro si fanno vivi Susanna, Gregorio e Mauro, niente di nuovo, Aurora non si trova, eppure i negozi sono serrati, a quest’ora in giro non c’è anima viva, nemmeno tanto traffico. Ma le strade in centro città sono centinaia e, a ogni incrocio lei ha potuto cambiare direzione, valla a pescare! Ritornano i ragazzi col fiatone, sono davvero presi dalla ricerca ma non hanno buone notizie per me. Per tenerli tranquilli li invito a trovare numeri telefonici. Voglio un elenco dettagliato di tutti gli ospedali della città. Mi ubbidiscono senza fiatare e io lo apprezzo molto.
Squilla il telefono di casa, rispondo con apprensione, una voce ignota mi chiede con garbo: “Buon pomeriggio, mi scusi, è lei la signora Claudia mamma di Aurora?” Rispondo di sì mentre le budella mi si contorcono. “Sono il Dottor Belli signora, lei non mi conosce, abito al N° 20 di Via Torino e sono qui con la sua simpaticissima figliola. Non si allarmi, sta bene, solo un po’ impaurita, è stata lei a fornirmi i suoi dati e il vostro numero. Potete venirla a prendere qui in casa mia, annoti indirizzo e recapito telefonico, nel caso debba richiamare. Vi aspetto.”
Prendo nota e ringrazio lo sconosciuto dalla voce rassicurante che mi ha ridato la vita, balbetto persino, scusandomi in anticipo. Poi chiamo i ragazzi a raccolta e li prego di rintracciare i loro genitori ancora in giro per le strade. Intanto telefono a Mauro e gli comunico di tornare in fretta a casa. Rinfrancato egli mi raggiunge e mi tempesta di lecite domande. M’infilo il giaccone, prendo la borsa e raccomando a tutti di chiudere bene le porte qualora volessero andar via.
In auto riferisco a mio marito, per filo e per segno, della telefonata ricevuta. Ci rendiamo conto che Aurora si è allontanata tantissimo, ha percorso più di sei chilometri, attraversando strade, binari del tram, incroci custoditi da semaforo. “Guarda un po’ quanti pericoli ha corso! Mi sentirà tra un po’ quella birbante!” In via Torino parcheggiamo l’auto, al civico 20 c’è un portone in legno scuro di un elegante palazzo antico. Suonando il citofono noto che, affisse al muro, ci sono numerose targhe che pubblicizzano studi privati.
“Chi è?” mi chiede una voce di donna. “Sono la signora Claudia mamma di Aurora, mi ha chiamato il…” Ma la voce mi interrompe per dire: “Secondo piano”. Saliamo i gradini due alla volta, col cuore in gola, non sappiamo bene cosa aspettarci. L’uscio già aperto al secondo piano mostra un’altra grande e lucida targa in ottone con inciso: < DR. BELLI – STUDIO MEDICO >. Una gentile signora ci invita ad entrare in uno studio arredato con mobili di pregio. Sono io la prima ad attraversare la soglia, Mauro mi segue. Accoccolata su una poltroncina posta di fronte c’è Aurora in lacrime con le mani intrecciate sulle gambe e la testa china, la luce fioca di un lume la illumina a stento. Non appena la vedo mi si scalda il cuore e mi si riempiono gli occhi di lacrime, vorrei avere la forza di sgridarla ma non riesco a rimproverarle nulla per quanto mi abbia fatto morire di paura. La raggiungo per stringerla a me chiedendole solo: “Perché?” Lei ricambia il mio abbraccio e sbotta in un pianto liberatorio. Tra un singhiozzo e l’altro riesce solo a dire: “Non lo faccio più.” Mauro è accanto a me, ha l’espressione di un uomo distrutto, sembra invecchiato di colpo. Ha i capelli arruffati, la fronte sudata e sta per perdere il controllo. Poi cinge entrambe con le grandi braccia tirando su col naso.
Il Dr. Belli osserva la scena poi ci fa accomodare per raccontare la sua versione dei fatti. In primo luogo ci propina apprezzamenti per la spiccata maturità e intelligenza di nostra figlia che ha saputo mettere in atto un giustificato piano di fuga e far fronte persino agli imprevisti. La nostra espressione sorpresa è eloquente, non comprendiamo cosa egli stia cercando di comunicare e perché esalti una rivolta adolescenziale che ci ha fatto soffrire così tanto, ma di quali imprevisti parla? Un po’ spiazzati approfittiamo per ringraziare, l’elogio all’intelletto e all’efficienza pratica di Aurora è per noi un’assoluta novità, ma stiamo parlando della stessa ragazza? Il dottore continua spiegando che ha colloquiato a lungo con lei, giusto per capire come aiutarla. Nostra figlia è stata capace di spiegargli la tensione familiare, il suo risentimento verso i cugini e noi adulti. In un secondo momento apprendiamo che si è allontanata da casa per rabbia nei nostri confronti, per dimostrare a tutti di essere in grado d’agire in autonomia e per capire a sua volta quanto ognuno tenesse davvero a lei. Aurora confessa apertamente di aver effettuato il percorso sia a piedi che in bus, di essersi sentita male accusando crampi allo stomaco e di aver deciso di citofonare a un medico dopo aver letto con attenzione le targhe esposte fuori dal portone. Incredibile! Lei ha fatto da sola tutto questo? Ebbene si, ed è perfino consapevole del dolore che ci ha causato, per tale ragione, insiste il dottore, merita di essere perdonata. Esterrefatti ma sollevati, esprimiamo gratitudine e ci congediamo dal Dr. Belli, le sue parole ci hanno fatto bene al morale. Ci importa solo che Aurora sia sana e salva!
Saliamo in auto per ripercorrere la strada verso casa. Lei sembra serena ma ha perso la lingua, se ne sta seduta guardando fuori dal finestrino, sa di essere in torto e astutamente attende la nostra reazione. Io non voglio tormentarla ma capire i suoi problemi, le lascerò qualche tempo per riflettere, poi parleremo a lungo. Ho mille domande da porle, mille cose da chiarire. Comunque mi giro, la fisso e dico: “Non farlo mai più; e per ora mi fermo qui”. Guardo Mauro e gli sfioro la mano che tiene sulla cloche del cambio. Egli accenna un ghigno, è ancora teso ma ha recuperato un po’ di colorito, so già che quest’esperienza sarà indimenticabile per tutti, una lezione. Abbiamo imparato che Aurora è in grado di affrontare la vita in ogni senso, siamo noi ad avere troppe paure, a crearci mille ossessioni. Lei si è evoluta davvero, noi siamo rimasti fermi al palo a piangerci addosso, io più di tutti.
Apriamo l’uscio di casa convinti che Susanna e la sua famiglia abbiano preferito sloggiare, c’è troppo silenzio. Aurora procede diretta verso la cameretta per togliersi la giacca. Dal saloncino invece, uno dopo l’altro, le vengono incontro zii e cugini con espressione preoccupata, a turno l’abbracciano forte chiedendole: “Stai bene? Ma dov’eri finita? Ti abbiamo cercata ovunque! Stavamo chiamando la Polizia”. Lei sorride sorniona e avvampa in viso ma risponde convinta: “Aspettatemi in cucina, metto la giacca in camera e arrivo”. Mi sento una mamma idiota, non so come abbia fatto mia figlia a ottenere il risultato che si era prefisso, l’attenzione e le manifestazioni d’affetto che le mancavano. Susanna nota il mio disorientamento, e per la prima volta dopo una vita, mi viene incontro dicendo: “Bentornati a casa, che spavento ragazzi! Ma Aurora è qui con noi, è l’unica cosa che conta”.
Il tavolo in cucina è ancora apparecchiato, le tazzine da caffè sono ancora lì l’una accanto all’altra, insistono col mostrare le faccine sorridenti. Le guardo e mi ispirano gioia, adesso ci somigliano di più. Ci ritroviamo di nuovo seduti vicini, ma l’atmosfera è proprio cambiata e fuori non piove più. Aurora è al centro della stanza, unica protagonista dei nostri discorsi, per ore ci intrattiene per raccontare la sua breve avventura, tutti la interroghiamo restando affascinati. I suoi cugini sono i più incuriositi, le tengono incollati gli occhi addosso, pendono dalle sue labbra, invidiano il suo coraggio. Da oggi, grazie a lei tutti siamo diversi, abbiamo ritrovato per magia quell’armonia che mancava.
Ci vediamo più spesso e stiamo bene, Aurora e i tre cugini gemelli sono ormai un gruppo compatto e, quando le chiedono di spiegare loro come ha fatto a evitare tanti pericoli, lei risponde orgogliosa: “Lo sapete da sempre, sono nata così, sono un essere speciale con una marcia in più, nessuno lo può negare e mi dispiace per voi che invece siete nati normali e non potrete mai diventare come me.”
Facìa assà friddu
Facìa assà friddu
Iornu di innàru, facìa assà friddu,
‘na matri ‘n brazzu tinìa nu picciliddu;
giarnu era ‘n faccia, lu sciatu ci mancava,
la frevi avìa e la vita ci strazzava
Chiancìa lu patri, e avìa la gutta
lu pettu si battìa e si dava ‘a curpa;
curpa di la miseria, miseria ‘nfami,
ca lu privava di li curi e di lu pani.
“Murìu to figghiu!”, ci dicìa ‘a mugghieri;
nu misi avìa, cadìa fora la nivi,
Dicìa lu patri: “l’avemu a vattìari!
Puru s’è mortu la grazzia avi aviri!”.
Nesci pi strata, currennu comu nu foddi;
va versu la chisi, ca si truvava ‘n funnu.
Era lu vintitri innàru di lu quarantatrì,
e genti ‘n marcia vinìa versu di iddu.
Eranu tedeschi ed ebbrei scurtavanu
ca, a dui a dui, versu la morti ivanu.
Nu patri ebbreu avìa fra li so mani
nu picciliddu ca chiancìa e frignava
Vitti ddu patri cu lu so figghiu mortu
e capìu ca iddu ci lu mannau la sorti.
Ci dissi chianu, senza farisi ascuntari
da li surdati ca prèscia avìanu di iri:
“pigghia me figghiu, lu picciliddu vivu,
dammi ‘u to mortu ca lu portu ìa a Dia!
E fallu crìsciri comu to figghiu fussi
e Dia assà gràzzii ti farà pi chistu!”.
Tempu nu lampu si scanciaru ‘i figghi:
lu mortu è mortu, lu vivu resta vivu!
Passa lu tempu, passa comu nu lampu,
si sèntinu ‘n funnu corpi di mitragghi.
Nu patri dici: “grazzii o me Signuri,
‘stu figghiu ebbreu criscirò cu unuri,
e se so patri pùa arritornerà vivu
‘stu figghiu, miu, sarà puru lu sua!”.
Ma murìu so patri, murìu fucilatu,
e ‘n faccia avìa ‘na granni risata.
E tutti ddi crucchi, vili e assassini,
di dda risata nun capìanu ‘u mutivu.
Faceva assai freddo
Giorno di gennaio, assai freddo faceva,
una madre in braccio un bambino teneva;
pallido era in faccia, il fiato gli mancava,
La febbre aveva e la vita gli strappava.
Piangeva il padre, e aveva l’angoscia.
il petto si batteva e si dava la colpa;
colpa della miseria, miseria infame,
che lo privava delle cure e del pane.
“E’ morto tuo figlio!”, gli diceva la moglie;
un mese aveva, scendeva fuori la neve,
Diceva il padre: “lo dobbiamo battezzare!
Pure s’è morto la grazia deve avere!”
Esce per strada, correndo come un folle;
va verso la chiesa, che si trovava in fondo.
Era il ventitré gennaio del quarantatré,
e gente in marcia veniva verso di se.
Erano tedeschi ed ebrei scortavano
che, a due a due, verso la morte andavano.
Un padre ebreo teneva fra le sue mani
un bambino che piangeva e si lamentava.
Vide quel padre con suo figlio morto
e capì che quello glie lo mandò la sorte.
Gli disse piano. Senza farsi sentire
dai soldati che fretta avevano d’andare:
“prendi mio figlio, il bambino vivo,
dammi il tuo morto che lo porto io a Dio!
E fallo crescere come tuo figlio fosse
e Dio tante grazie ti farà per questo!”
Tempo un lampo si scambiarono i figli:
Il morto è morto, il vivo resta vivo!
Passa il tempo, passa come un lampo,
si sentono in fondo colpi di mitraglia.
Un padre dice: “grazie o mio Signore,
questo figlio ebreo crescerò con onore,
e se suo padre poi ritornerà vivo
questo figlio, mio, sarà pure il suo!”.
Ma morì suo padre, morì fucilato,
e in faccia aveva una grande risata.
E tutti quei crucchi, vili ed assassini,
di quella risata non capivano il motivo.
Il bongiol
Da sola tu la strada non la imboccheresti mai. Fatti guidare da me. La vecchia trazzera del pecoraro la devi percorrere fin dove, in una curva in salita, sei costretta a stare tutta a sinistra perché l’altro lato è accidentato. Lì ti fermi, salti il tratto sconnesso a destra e ti infili dentro il canneto a occhi chiusi. Sotto i tuoi piedi trovi il viottolo che scende verso di me. Quando arrivi senti subito la frescura e la pace della vecchia cava. Senti di stare in un ambiente naturale. Rilassante. Accogliente. Amico. Senti che è il posto giusto per curare la tua malattia inguaribile.
Arriva senza documenti, senza telefonino, senza nulla addosso, oltre il tuo vestito. Butta il biglietto dell’aliscafo appena scendi sull’isola. Devi presentarti a me senza legami di qualsiasi natura. Il tuo abbandono deve essere totale.
Prendiamo un infuso insieme, in compagnia della migliore musica. Mi parli di ciò che vuoi e io ti ascolto, attento e silenzioso.
Quando ti senti pronta sei tu a chiedermi di iniziare.
Ti adagi sul letto più comodo che tu abbia conosciuto. Ti sembra di stare tra braccia premurose, con la piacevole sensazione della seta a contatto con la pelle nuda.
Il palmo di quattro mani scivola lievemente sul tuo corpo. Non riesci a distinguere le mie mani da quelle di Marta. Non hai più voglia di aprire gli occhi.
Il bongiolo ti accompagnerà nel tuo percorso e ti aiuterà a rivivere le emozioni. Io l’ho preparato poco prima del tuo arrivo. E’ importante che sia fresco e alla giusta temperatura. Ho modellato la spugna per adattarla alla tua bocca. Per primo l’ho inzuppata nel latte. Poi è stato il turno del miele. A seguire del limone. Infine dell’estratto di radice bianca. Le dosi sono basilari: nulla deve sovrastare, nulla deve intaccare l’armonia del rito.
Le carezze ti hanno alleggerito la mente. L’effetto dell’infuso ha completato il rilassamento. Sei pronta per il bongiolo.
La spugna del profeta mi arriva dal golfo di Aqaba, sempre più raramente. Me la porta il mio amico giordano, immersa nell’acqua di mare. Lui rischia perché è severamente vietato raccoglierla. E’ rarissima, ma soprattutto è sacra, per tutti le religioni. Da quelle parti tutti hanno un profeta e qualcosa da contendersi. Per i cristiani è la spugna che imbevuta di acqua e aceto dissetò Gesù sulla croce. Io la lavoro con il bisturi perché non si rovini e non presenti parti ruvide. Ti dà la sensazione di una mammella di lattice vivo. Il capezzolo ha la dimensione giusta per una bocca adulta.
Intanto le carezze ti hanno isolato la mente dal corpo. Torni indietro col pensiero. Stamani. Ieri. L’altro ieri. I nostri incontri preparatori. I giorni neri. I giorni grigi. Le pene. La stanchezza. Tanta stanchezza. La decisione estrema. La tua fronte si corruga. Ti avvicino il bongiolo alla bocca. Succhi e fai una smorfia. L’amaro dell’estratto della radice bianca si irrora nella tua bocca. Per estrarre la radice ho dovuto frantumare in profondità il tufo dove era attecchita e poi l’ho pestata per ore e ore. Ingoi e in un attimo le tue papille si riprendono. Il sapore rimanente diventa piacevole. Persistente.
L’effetto rilassante arriva dopo poco. Ti annebbia la volontà. Riprendi la tua corsa indietro nel tempo. Adesso la tua fronte si distende. Sorridi impercettibilmente. Arrivano giorni sereni. Poi giorni grigi. Poi giorni neri. Nerissimi. Ti scuoti sul lettino. Le nostre carezze ti rassicurano. Ma non bastano. Altre carezze. Ma non bastano. Un grande dolore, una grande delusione, una grande illusione non si superano. C’è un modo solo: saltare nel tempo. Giri la testa verso di me. Una succhiata profonda esaurisce l’estratto ma ha l’effetto di proiettarti al giorno prima. La strada è in discesa. Ti avvicino il bongiolo. Senti l’aspro del limone. Ti rinfresca la bocca. Ti ripulisce. Ti fa ripartire. Limone lunare.
“Anche le piante dopo scaricate, si riposano.
Mi sento come un limone lunare
che non riposa mai.
Si chiamano lunari perché ogni luna butta le sue zagare
senza risparmio, non tutte infruttano,
casca la vecchia foglia dalle nuove,
gialle le deperite, come noi.
Quando si coglie l’ultimo limone
giallo maturo, è verde il piccolo
e affaccia il nuovo fiore, in ogni tempo
senza darci la secca.
Si raccolgono quando non c’è altri
e hanno altro valore.”
Ti senti ringiovanire. Ti piace. Ti rende leggera. Succhi ancora. Ma il limone è finito. Percepisci solo il sapore del mare che non lascerà mai la spugna. Il mare. Il mare. Tanto mare. Tante risate. Tanti giochi. Tante vacanze.
Succhi ancora. Arriva il miele. Senti che è miele, ma non lo riconosci. Non puoi conoscerlo. E’ miele di fiori di cappero. Le piante crescono nei cimiteri. Le guardi e non capisci come possano sopravvivere. Arrampicate sui muri degli edifici funerari, vivono senza terra. I vecchi dicono che si nutrono della speranza di rinascita di chi giace in quella tomba. I fiori nascono e muoiono dopo due, tre ore. Solo le api più esperte sanno intercettare il loro profumo. Suggono per carpire energie vitali. Depositano il miele in vecchi favi isolati. Estrarlo mi costa giorni e giorni di appostamento e tanta fatica.
Il miele è fluido. Dolce e inebriante. Il suo sapore ti spinge giù, verso i tuoi giorni più spensierati. Ti senti leggera. Sempre più leggera. Sempre più atona.
La tua bocca ha riassaporato tutti i gusti, eppure succhi ancora. Succhiare è già bello in sé, ma tu cerchi l’ultimo gusto. Cerchi l’umami. Senti che non è finita, senti che devi ancora percepire il saporito. Il primo gusto della tua vita.
Il latte l’ha tirato dal suo seno Marta, che ancora allatta il suo piccolo. E’ uscito con uno spruzzo che per poco non mi sporcava il camice.
Spingo il bongiolo verso il tuo viso. Succhi con avidità. Senti un tepore dimenticato. Succhi con le residue forze. Respiri sempre più lentamente. Succhi sempre più lentamente. Procedi serena verso la fine.
La tua mente non ha più ricordi, non ha più immagini. Vedi una luce fulgida. Ora bianca, ora celeste. Ancora bianca. Non hai più resistenze. Il bongiolo ti è scivolato via. La luce è fortissima, ma non ti abbaglia. Vedi qualcosa. Sei attratta. Il mio massaggio ti trattiene.
Vorresti andare, senti che là c’è pace.
Il mio massaggio ti trattiene ancora un po’.
Assapori l’ultimo sussulto.
Una voce lontana ti chiama.
La riconosci.
Vuoi andare.
Ti lascio andare.
Ora non soffri più.
Monito
Non si può soffiare sul fuoco del Sud
o lasciare libera una zanzara
in volo
mentre brucia il sonno alla notte
dopo aver fatto incetta di sangue.
Non si può tollerare il nero
che si spande fitto
nei cuori senza pulsioni
perché gli assassini di luce
o di pace
continuano a caricare di oro il carro
scavalcando le parole scritte
senza farsi vedere dai doganieri.
Non si può essere allegri
sotto il peso della follia
che infrange il giorno
anche quando il cielo è terso
e splende il sole;
e non si può dormire
con questo seme che fermenta
sotto la pelle.
Non può l’uomo senza una preghiera
dimenticare o non tenere conto
che la terra dovrà poi guardarla
da un’altra angolatura:
da sotto verso sopra.
In un momento
In un momento,
più niente in equilibrio.
Si ruppero le arterie e nel buio
S’inondò il fiume sotterraneo,
s’eclissò la danza senza musica
ei bimbi tacquero:
furono bloccate cascate diamantine
di fronte al clown che non sorrise.
Si confuse il fremito agli sterpi,
sorbirono le pupille lacrime asciutte,
si spogliò l’albero delle speranze
e inerte
aprì le braccia
al cielo che non visse.
Jeta e Pietro
Mi chiamo Pietro, e mi ricordo molto bene di quando andavo alle scuole elementari, nel mio quartiere.
Ero in seconda elementare, mi piaceva andare a scuola, e un giorno la maestra venne in classe accompagnando una bambina nuova, appena arrivata in città. Ci spiegò che la bambina viveva in un piccolo campo di nomadi in periferia, ci disse che l’anno precedente era stata a scuola soltanto per poche settimane, e ora che la sua famiglia si era fermata in città, voleva che lei studiasse. La realtà era un po’ diversa da come ci aveva raccontato la maestra, anche se allora non lo sapevamo: il padre era stato arrestato per l’ennesimo furto, la madre aveva ottenuto gli arresti domiciliari presso la roulotte a condizione che mandasse la figlia più grande, quella appena entrata in classe, a scuola, e i tre fratellini presso l’asilo.
La maestra disse che la nuova bambina ci chiamava Jeta, che veniva dalla Jugoslavia, allora ancora unita, e che la dovevamo aiutare, perché faceva un po’ di fatica con l’italiano. Visto che io ero bravo e disponibile ad aiutarla, la maestra la mise in banco con me.
Quando la giovane madre della nuova compagna veniva a prendere la figlia, mi sembrava troppo giovane per fare la madre, era ancora un ragazza, e le sentivo parlare una lingua incomprensibile.
Jeta era carina, magra, mi piacevano i suoi occhi neri, svegli e furbi, sorrideva sempre, i suoi denti risaltavano sulla pelle leggermente più scura della nostra. Facemmo un patto: io la aiutavo in italiano (che lei parlava veramente male) e in grammatica, lei m’insegnava ogni giorno qualche parola nella sua lingua. Era passato qualche mese, e un giorno avevo finito l’inchiostro della penna, lei se ne accorse e dopo al ricreazione mi diede una penna.
“È tua? Grazie.” le dissi contento, sorridendo, quello era il primo regalo che mi faceva.
“Non ringraziare a me per piccola penna, se ti serve qualcosa, tu dimi a me che io a te porto. Vuoi quaderno? Matite? Colori? Classe è piena di questi oggetti…” mi rispose strizzandomi l’occhio, nel suo italiano stentato.
“Ma, ma… Vuoi dire che questa penna…?” risposi, non riuscendo neanche a dire la parola “rubata”.
“Adeso te prego non incomincia a fare a me storie, già direttrice ha deto questo, poi anche maestra, dai Pietro, per favore, almeno tu fai bravo!”
“Ma non si fa, Jeta per piacere, non lo fare più.”
“Parli bene, tu che hai tuto, ma io no. Me lo dice sempre mia mamma, se non rubi, poi non mangi. Tu mangi merendina tuti giorni, ma io no mangia merendina, tu vede questo?”
Jeta aveva ragione. È facile dire di non rubare quando si ha tutto. Il problema è quando non si ha niente. Da quel giorno andai a scuola con due merendine, una per me e una per lei, e come promesso, lei aveva smesso di rubare. Insomma, non aveva proprio smesso, ma comunque lo faceva molto poco, quasi nulla, perché ogni tanto veniva con un piccolo regalo per me, preso direttamente dal supermercato.
Ormai sapevo dire alcune frasi, conoscevo molte parole, quando lei non voleva farsi capire, mi parlava nella sua lingua e tutti ci guardavano stupiti.
Quelli furono anni belli, ma d’altronde alle elementari tutto è meraviglioso. Jeta cresceva e mi piaceva sempre molto: era alta, magra, aveva i capelli fino alla vita.
Un bel giorno, in quarta elementare, non venne più a scuola. La maestra non ci diede molte spiegazioni, ma da quello che si sentiva in giro, dalle notizie che giravano, c’erano stati dei problemi al campo, qualche furto di troppo, e in una sola notte la polizia aveva evacuato tutti gli zingari che ci vivevano.
Jeta era sparita letteralmente nel nulla.
Di lei era rimasta solo una foto, alla fine della terza, addirittura mentre mi dava un bacino sulla guancia.
Io continuai gli studi, dopo le medie frequentai il liceo classico, volevo diventare un medico. Poi cambia idea e feci giurisprudenza, mi vedevo diventare avvocato, attirato però più da Cicerone che da Azzaccagarbugli. Ogni tanto pensavo a dove fosse finita.
All’università mi appassionai di più alle indagini che alla difesa degli imputati, per cui intrapresi la carriera nella Magistratura. Non superai il primo concorso, non ero preparato sufficientemente, e riprovai l’anno dopo. Lo passai, e mi accorsi che non era tutto come avevo sperato. Non c’erano aule profumate di giustizia e processi con eque sentenze, quello era un mestiere da passare in trincea, con indagini difficili, con ostacoli di tutti i tipi, a volte posti dal mondo mafioso e a volte dal mondo politico. E si scopriva solo alla fine quale mondo metteva gli ostacoli.
Fare il Magistrato voleva dire essere visto da tutti con sospetto, da concussi e concussori, da vittime e carnefici, dai condannati e dagli assolti. Girai cinque Procure, in giro per l’Italia. Prima in Sardegna, poi in Calabria, terre molto più difficili di quello che si legge sui giornali. Non si può entrare in un paese senza essere notati, tutti sanno che è arrivato chi “non dovrebbe essere lì”, a fare cose che “non dovrebbe fare”. Durante certe indagini dovevo girare sempre con la scorta, la sera preferivo non uscire. Era una vita dura ma mi piaceva.
Poi girai tre regioni del Nord Italia, mentre nel frattempo avevo coperto tutti i ruoli della magistratura: Pubblico Ministero, in cui ero in prima linea nel fare indagini, GIP in cui dovevo verificare se le prove addotte dal Pubblico Ministero fossero valide per tenere l’imputato in carcere in custodia cautelare in attesa del processo, e Giudice, in cui ascoltavo in aula le parti e decidevo in merito alla colpevolezza e stabilivo le condanne.
Il lavoro più difficile era sicuramente l’ultimo, dove servivano senso di giustizia, equità, grande equilibrio mentale, e sono doti che non sempre abbondano nelle persone. Il Pubblico Ministero e il GIP prendono decisioni interlocutorie, ma alla fine non sono responsabili della condanna, che viene data dal Giudice: è lui che chiude un uomo o una donna in carcere per due anni, cinque, dieci o venti.
Ormai stavo per maturare un’anzianità tale per cui sarei diventato Giudice di Corte di Assise, i processi agli assassini, lasciandomi alle spalle i piccoli dibattimenti che fino a qui avevo seguito: furti, borseggi, spaccio, nel complesso reati non particolarmente gravi e situazioni non molto complicate. Ancora pochi mesi e sarei dunque passato a processi ben più importanti, e poi magari anche quelli contro le grandi associazioni mafiose.
Quella mattina entrai nel Palazzo di Giustizia e presi la lista dei processi del giorno. Date e orari vengono fissate dalla Cancelleria, e il Giudice non sa nulla fino a che non entra in aula, e lì valuta le prove dell’accusa, le argomentazioni della difesa, e decide.
Presi un caffè con il Procuratore Capo, scambiai quattro chiacchiere con lui, poi entrai in aula. Il Cancelliere mi portò il fascicolo, vidi che era sottilissimo, senza voluminosi documenti riguardanti le indagini, segno che era uno dei soliti casi di furtarelli o spacciatori presi in flagranza di reato, insomma la solita minutaglia di piccoli reati. A dire il vero ero stufo di tutta questa micro-criminalità sfaccendata che non lavorava e che invece faceva lavorare me; solitamente liquidavo l’udienza in pochi minuti e di solito davo un pochino sotto del massimo della pena, così questi scansafatiche si sarebbero fatti un po’ di galera e io avrei pulito un po’ la città. Condannare e mandare in galera era la mia ricetta: pratica, veloce, risolutrice. L’unico rammarico era che le pene per i ladruncoli erano secondo me troppo basse.
Il Cancelliere domandò se poteva far entrare l’imputata, io dissi di sì, e la scorta della Polizia Penitenziaria entrò con una zingara. Io la fissai mentre avanzava: con la gonna colorata variopinta, grassa, i capelli lunghi, scura in volto, non mi fece nessuna impressione di simpatia. Fui solo colpito dal suo sguardo. Mi sembrava di averlo già visto, ma sicuramente mi sbagliavo. Aprii il fascicolo e lessi il nome: Alexia Petrovic. Alzai lo sguardo e la fissai nuovamente, perché sentivo la sua voce mentre si lamentava con la polizia. Avevo come l’idea di aver sentito quel tono, ma sicuramente mi sbagliavo. Però non pensavo proprio che fosse una qualunque Petrovic: gli zingari ogni volta che venivano fermati davano un nome nuovo, oltre che una nazionalità sempre diversa. Una volta si dichiaravano croati, una volta serbi, una volta cosovari e non si sa mai chi si aveva davanti.
La guardai ancora e dissi due parole in una lingua straniera, che ovviamente nessuno capì.
Le avevo domandato “Sei Jeta?”, lei mi fissò immediatamente, si rese conto di chi io fossi e gridò di sì.
Io mi avvicinai alle guardie, dicendo di liberarla e di farla sedere, che le dovevo porre alcune domande. Loro si guardarono un po’ dubbiose, ma il Giudice dentro un’aula di tribunale è sovrano, se ordina di cantare una canzone dello Zecchino d’oro, tutti devono ubbidire, pena l’accusa di oltraggio alla Corte!
Mi sedetti accanto a Jeta che era veramente irriconoscibile, quel piccolo musetto dolce che mi ricordavo ora era un volto sofferente, con molte rughe, senza qualche dente. Soltanto lo sguardo aveva mantenuto la vivacità e i suoi occhi erano lucidi per l’emozione.
Jeta iniziò a piangere e partì a parlare velocissima nella sua lingua, ma io non capii nulla. Allora prese a parlare lentamente, con frasi semplici, e io adesso potevo capire quello che diceva. Attorno a noi c’era un capannello, con le guardie della Polizia Penitenziaria, il Pubblico Ministero, il Cancelliere, l’avvocato d’ufficio della difesa, oltre all’uscire che era troppo curioso per non entrare e ascoltare. Nessuno capiva, ma tutti ascoltavano con grande interesse. Nessuno osava dirmi niente. Io capivo ma facevo fatica ad esprimermi, qualche volta forse dicevo qualche fesseria perché Jeta rideva alle mia parole. Poi lei mi disse che non potevamo continuare a parlare in questo modo complicato, che mi doveva raccontare che cosa aveva fatto in questi anni, e per farmi capire me lo doveva raccontare in italiano, ma che tutti quei rompiscatole se ne dovevano andare. Non usò proprio queste parole, non era molto fine come linguaggio, né molto gentile con le forze dell’ordine, ma il senso era quello.Io prima risi, poi dissi ai presenti che volevo restare solo per raccogliere “le libere deposizioni dell’indagata”, qualcuno borbottò, ma Jeta si alzò e disse ad alta voce: “Lui qui è capo, no voi. Se lui dice che voi esce, voi subito ubidisce a Signor Giudice che è suo dirito de capire bene fati e io lui ora spiega come è andata mia storia. Capito bene?”
Faticai a non ridere a questa sua spiegazione, ma comunque tutti uscirono. Jeta iniziò a raccontare la sua vita come un fiume in piena. Era più o meno la solita vita disastrata di tanti nomadi, niente scuola, solo furti, qualche anno dopo il padre era stato ucciso da un colpo di pistola, la madre era depressa e alcolizzata; lei si era sposata a 17 anni, adesso aveva sei figli, il marito era in carcere. Jeta aveva pianto quasi tutto il tempo.
Io che cosa le potevo dire? Non aveva mai avuto una casa come la mia, una famiglia come la mia. Non sapeva che cosa volesse dire studiare prima e lavorare poi. Io, Giudice, chi dovevo giudicare? Che cosa dovevo giudicare? Come potevo giudicare? Jeta aveva fatto come i nonni, come i genitori, e aveva insegnato ai figli la stessa cosa: arrangiarsi in qualche modo, sopravvivere, rubacchiare le bottiglie al supermercato per venderle i ricettatori. Si era fatta i suoi bravi anni di galera, da cui era entrata e uscita con assiduità, ormai i figli erano grandi, e visto che si sposano quando sono ragazzi, lei era già nonna di ben nove nipotini.
Io avevo avuto una vita più ordinaria, mi ero sposato ed ero separato. Ma ormai i matrimoni che finivano con la separazione erano superiori di quelli che proseguivano. Avevo un figlio di 10 anni.
Ero emozionato, a sedere nuovamente accanto a Jeta, a parlarle. Sì, mi resi conto che Jeta mi piaceva ancora. E io a lei, decisamente più del marito che la menava come fanno gli zingari. Lei era entrata in aula convinta di prendere la solita condanna, e aveva avuto qualcuno con cui parlare, cui raccontare i suoi problemi, la sua vita, le sue speranze per il futuro. Ma eravamo troppo lontani per pensare che ci potesse essere un futuro insieme.
Le dissi che il mio dovere era di condannarla, e che lo avrei fatto, ma in modo che questa condanna la aiutasse, aggiungendo che il giorno che avesse avuto bisogno, mi sarebbe potuta passare a trovare al Palazzo di Giustizia. Lei fece quello che non avrei mai sperato, disse che accettava la mia sentenza (temevo si mettesse a gridare e a insultarmi) e mi abbracciò.
La sua “deposizione” era durata quasi tre ore. Ogni tanto aprivano la porta, per vedere cosa stava accadendo, e Jeta li fulminava con lo sguardo. Finalmente tutti poterono rientrare. Io ascoltai il Pubblico Ministero che spiegò le modalità del furto al mercato della frutta, mele e cipolle, e chiese sei mesi di condanna. Fu il turno dell’avvocato d’ufficio che si rimise al generico “mi rimetto alla clemenza della corte”. Io mi ritirai per decidere.
Da una parte il cuore, dall’altra il codice. Non era facile. Ci misi oltre un’ora a trovare la soluzione. Rientrai in aula.
“In piedi entra la Corte.” disse meccanicamente il Cancelliere.
Jeta era sorridente, visto che il Pubblico Ministero aveva chiesto sei mesi e io avevo promesso di aiutarla, sicuramente pensava a tre mesi di condanna ma con gli arresti domiciliari presso la roulotte. Io lessi con calma la solita formula di rito: in data odierna… procedimento numero… l’accusa richiede… la difesa sostiene… visti gli atti… e a quel punto stavo per proclamare la sentenza.
Tutti mi fissavano. La lessi lentamente: “Condanno la qui presente Alexia Petrovic a dodici mesi di…”
“Dodici mesi? Tu deto dodici mesi? Ma quello Publico Ministero chiede sei mesi e tu me condanna a dodici? Ma qui tuti è mati! Ma io credeva che…”
“L’imputata taccia e mi lasci finire!” dissi severamente ad alta voce, facendola tacere.
“Dicevo dodici mesi di lavoro obbligatorio presso il Tribunale, a lavorare, a pulire le scale e i vetri, per capire quale sia l’importanza da attribuire al lavoro, per acquistare la propria dignità, per imparare come si può vivere onestamente senza rubare. Sarà cura del sottoscritto Giudice verificare come sarà svolto il lavoro, e se saranno notate manchevolezze, la pena sarà trasformata in dodici mesi di carcere. La seduta è chiusa.”
Mi alzai e uscii dall’aula.
Jeta era rimasta ammutolita. Adesso avrebbe dovuto lavorare dodici mesi, per lei una novità assoluta, ma avrebbe anche potuto dimostrare se quello che mi aveva detto prima era vero, “che io vole lavorare ma nessuno da me lavoro, se io ha modo de lavorare con onestà, io mostra de essere brava lavoratrice e no ruba più.”
La Polizia Penitenziaria non la portò neanche in carcere, ma la condusse direttamente all’Ufficio Servizi del Tribunale. Le dissero che si doveva presentare al lavoro il giorno successivo alle 8 in punto.
Potevo vedere Jeta tutti i giorni, parlavamo. Lei non era certo una santa, e non lo sarebbe mai diventata. Ma era una donna che aveva scoperto per la prima volta in vita sua l’importanza di un lavoro, di poter vivere onestamente, la soddisfazione di mettere via i soldi per potersi comprare quello che le serviva.
Capivo che le piaceva parlarmi, e lei capiva che io provavo la stessa emozione. Ci sembrava di essere tornati a tanti anni prima, bambini sui bachi di scuola.
I dodici mesi stavano per finire, nessuno di noi due aveva detto nulla: io ero sempre il Giudice che la doveva controllare, lei la condannata che doveva espiare la sua pena lavorando.
Mancavano solo tre giorni alla fine dei dodici mesi, quando Jeta entrò nel mio ufficio, e mi disse che stava per finire, ma che non voleva tornare al campo, dove avrebbe ripreso la vita di sempre. I figli erano grandi, lei era sola.
“E cosa vorresti fare?” le domandai.
“Vivere come dona onesta. Vorrei lavare tue le camicie, stirare, cucinare, insomma…”
Mi alzai, commosso, e ci abbracciammo.
Ora conviviamo ormai da tre anni, Jeta non ha più rubato uno spillo, fa la volontaria presso il carcere minorile dove parla con tanti ragazzi e ragazze che stanno facendo ciò che lei ha fatto per anni, e spiega loro quanto sia una strada sbagliata. Dice che lei ci ha messo tanti anni a capirlo, ma alla fine ce l’ha fatta, e ora cerca di aiutare gli altri. Aggiunge che fa tutto questo perché un Giudice, invece di darle l’ennesima bastonata, l’ha aiutata con affetto, e che lei ha ricambiato con amore.
La nostra è una storia meravigliosa, dove tutto in noi è diverso, dalla cultura alla religione, dagli studi all’ambito sociale, ma siamo riusciti con il nostro amore a ricreare un legame che sembrava perduto per sempre. Ci siamo reciprocamente insegnati molte cose della vita, e accettiamo le nostre diversità.
Se ci penso, mi sembra impossibile: siamo così diversi e al tempo stesso così uguali. Forse è proprio questo il segreto del nostro amore, ci accettiamo per quello che siamo e non vogliamo che l’altra persona sia nient’altro da ciò che è.
Adesso lei è nuovamente una bella donna, sicura di sé, con gli occhi vispi, i capelli un po’ meno corvini ma sempre lunghi, e quando mi vuole dire qualcosa in segreto, me lo dice nella sua lingua meravigliosa e sconosciuta agli altri, e capisco solo io…
La crisi
Sono ormai un miraggio
antichi valori ed esempi di virtù
ridotti in una condizione
di libera schiavitù.
Potere e ricchezza
la massima soddisfazione,
accecati e avviluppati
nelle spire dell’omologazione.
Di fronte a realtà
di privilegi e corruzione
si leva stridente
la mia totale disaffezione.
Tutti nudi ha accolto la terra nel suo ventre
e la morte attende tutti furtivamente.
Non siamo chiamati a condurre un’esistenza,
ma a condurre una vita
e coglierne la vera essenza.
E se dopo il cupo inverno
sboccia sempre ridente la primavera,
io posso credere e continuare a sperare
che la nostra specie si possa ancora elevare
riscoprendo con profonda umiltà
il valore della perduta legge
della moralità.
Lu picciriddu d'artofonti
Lu picciriddu d’artofonti
(dedicata al piccolo Giuseppe Di Matteo, il bambino di 10 anni sciolto nell’acido dalla mafia siciliana)
Li manu nt’aricchi è libbiru di mettiri
cu stà tristi storia ‘n puisìa nun voli sentiri
jo nun obbligu a nuddu d’ascutari,
lu fazzu p’arriminari la mimoria ‘ddulurata
lu fazzu pi smoviri la cuscienza ‘ddurmintata.
Pigghiatu a malintrinarìa mentri s’addivirtìa
mentri ‘nsedda a lu cavaddu trippiava ‘n tunnu
avìa misu li peri nta sta terra, senza firnicìa,
senza curpa comu ogni picciriddu di stu munnu
tinutu carciratu nto surcu assai prufunnu,
survigliatu da mafiusi da lu spioncinu, ogni sicunnu
ca vulianu zittiri nu patri, a sensu d’iddi, senza sennu.
Tri natali, tri cumprianni, arrè cu iddi ‘n cappucciati
luntanu da vrazza, carizzi e vasati di sò matri
tra scuru e puzza di rinchiusu senza forza
dunni li jorna scurrìanu senza amuri e nè cirtizza.
Lu picciriddu sutta a terra comu na larva curcatu a pinzari
tri anni senza viriri luci, suli, ventu e mari,
li mafiusi ‘n capu a terra, senza cori, a ririri e manciari
poi cu la scusa di fallu scriviri e pietà ‘ddumannari
aspittannu u suli, mentri fora accuminciava a sbrizziari
comu lu burru, nta l’acìtu, lu taliavanu squàgghiari.
Lu picciriddu d’artofonti oj curri ‘n sedda a li cavaddi nta lu cielu
sutta l’occhi du Signori, di li Santi e di tanti ancileddi,
accarizzatu da lu suli, da la luna e da li stiddi surridenti.
Nun c’è pirdunu tirrenu e mancu divinu
pi cu leva la vita allurdannùsi li manu
ddu postu chi ni fici tantu lacrimari
ora è jardinu da mimorìa, e fa pinzari
mi batti troppi forti lu cori, nu lu pozzu frinari.
Dintra sti mura, tra petri, bannera e mattuni
c’è lu sò nomi, lu sò sangu, lu sò caluri,
lu chiantu di la matri d’artofonti,
omini di Sicilia, omini di Sicilia, riflittiti si putiti
pinzati, talìati, parrati e privìnìti
c’è na liggi uguali pì’ tutti
stà nuàtri grapici finestri e porti
p’evitari ancora sangu, straggi
e maliritta malasorti.
Il bambino di Altofonte
(dedicata al piccolo Giuseppe Di Matteo il bambino di 10 anni sciolto nell’acido dalla mafia siciliana)
Le mani nelle orecchie è libero di mettere
chi questa triste storia in poesia non vuole sentire
io non obbligo nessuno ad ascoltare,
lo faccio per mescolare tra la memoria addolorata
lo faccio per smuovere la coscienza addormentata.
Preso contro il suo volere mentre si divertiva
mentre in sella al suo cavallo cavalcava attorno
aveva messo i piedi in questa terra, senza ansia,
senza colpa come ogni bambino si questo mondo
tenuto carcerato in un solco assai profondo,
sorvegliato da mafiosi dallo spioncino ogni secondo
che volevano zittire suo padre, a senso l’oro, senza senno.
Tre natali, tre compleanni, di nuovo con loro, incappucciati
lontano dalle braccia, carezze e baci di sua madre
tra buio e puzza di rinchiuso senza forza
dove i giorni scorrevano senza amore e ne certezza.
Il bambino sotto terra come una larva coricato a pensare
tre anni senza vedere luce, sole, vento e mare,
i mafiosi sopra terra, senza cuore, a ridere e mangiare
poi cu la scusa di farlo scrivere e pietà chiedere
aspettando il sole, mentre fuori cominciava a piovigginare
come il burro, nell’acido lo guardavo squagliare.
Il bambino di Altofonte oggi corre in sella i cavalli nel cielo
sotto gli occhi del Signore, dei Santi e di tanti angioletti,
accarezzato dal sole, dalla luna e dalle stelle sorridenti.
Non c’è perdono terreno e nemmeno divino
per chi toglie la vita sporcandosi le mani
quel posto che ci ha fatto tanto lacrimare
ora è giardino della memoria, e fa pensare
mi batte troppo forte il cuore, non lo posso frenare.
Dentro queste mura, tra pietre, bandiera e mattoni
c’è il suo nome, il suo sangue, il suo calore,
il pianto della madre di Altofonte,
uomini di Sicilia, uomini di Sicilia, riflettete se potete
pensate, guardate, parlate e prevenite
c’è una legge uguale per tutti
sta a noi aprire finestre e porte
per evitare ancora sangue, stragi
e maledetta malasorte.
Penso a Palermo
Il mal dell’anima mi strappa il cuore, giorno dopo giorno, e l’ansia m’attanaglia e mi uccide. Non era questo il fato immaginato, né la mia vita. Sognavo amore,…io; sognavo una famiglia intesa con i sacri crismi, e una moglie e dei figli che mi dessero affetto. Ma la mia era solo un’utopia, un’immagine di facciata, un’apparizione Mariana fasulla, proiettatami non so, se a torto o a ragione, da un’anima meschina. Eppure avevo tanto, eppure avevo il mondo. Avevo la mia terra, il mio futuro, il mio lavoro, l’affetto dei miei cari; …eppur mi son fregato. Cosa ci ho visto?
Un palpitar di cuore, e un po’ di calore in esso infuso da dolci parole, false, intrise di falsi modi e cortesie possono fregare il più forte e duro degli uomini. Povero illuso! Il sesso forte; ma dove, come, quando, chi l’ha detto? Il sesso forte non si perde al vento, dietro un femminile canto.
“Penso a Palermo”, e a quella che fu, un dì, mia donna: …la mia Anna. Penso ai respiri suoi negli orgasmi, nelle ore ripetuti,…e nei minuti; alla sua voce melodiosa che mi accarezzava l’anima; alle parole sue, portate in me dal soffio del suo dire senza pretese. Eppur poteva, ne aveva il diritto; condivideva con me gioie e dolori; e pur lo studio, altalenante a tratti nella disperazione. Il terzo giorno, il giorno d’astinenza, squillava il telefono come un richiamo. Il nervosismo mio dava l’annuncio;… e lei puntuale, alle mie parole, era presente.
Piccole bugie ai suoi cari, a madre e padre: dormo da un’amica! …ma non era l’amica, io ero altro; e non ero neppure il suo ragazzo.
Ero la sua metà, senza legami; ero l’appagamento di una dannazione chiamata “Amore”, ma mai detto o pronunciato.
Ed io prendevo il suo respiro, il suo corpo, la sua anima; e lei prendeva me, senza saperlo. Poi s’addormentava sul mio petto, soddisfatta, e mi stringeva stretto, come se avesse paura di perdermi in quell’istante. Poi al risveglio mi sorrideva dolce. Ed accendeva quella sua sigaretta, ormai consueta; me la passava ed io, con lei, facevo lo stesso. E quel tabacco mi inebriava, stimolava il cuore ed il mio corpo; ed era nuovamente l’ora di volare. Non c’era droga che potesse dare gioia più sublime; non c’era droga che potesse farmi volare come allora.
E quell’andare si ripeteva più volte, finché sfiniti finivamo fra le braccia di Morfeo, ma soddisfatti.
Il mio amico Marco, nella stanza dirimpetto alla mia, nel corridoio, diceva ch’ero matto; che non potevo tenere sempre quel ritmo. Ma il mio non era esibizionismo: …era la vita!
La vita…, che mi dava quei momenti;…ed io li assaporavo e li prendevo.
E non rimpiango or d’averli presi, anzi ringrazio Dio di quel suo dono datomi allora. Quel cigolio del letto lo faceva pensare; faceva pensare e distrarre il mio amico, e lo distoglieva dal suo studio; quell’eterno cigolio, del letto altalenante, lo faceva pensare alla mia salute. Ma, io penso, lo faceva pensare anche a ben altro; non gli mancava certo l’immaginazione, né l’esperienza della coppia. Mi era simile, se non quasi uguale; solo che non teneva i miei ritmi, e neppure il mio tempo. Ma la sua compagna non s’era mai lamentata, almeno in pubblico. La stanza accanto alla sua era più quieta. Un ragazzo ed una ragazza facevano nel tempo andirivieni dal palazzo, silenziosi. Lui alto e moro, sempre serioso; lei sorridente, un po’ bassina, e i suoi capelli erano riccioluti e quasi biondi. Due bei ragazzi, ma un po’ tristi a sprazzi;…poi sovente.
E un dì quella tristezza divenne dramma. Erano a letto a far l’amore; qualche gridolino e cigolio filtrava a tratti attraverso i muri, se non di cartone quasi.
Poi un boato fece rimbombo nei corridoi di tutto il palazzo: era quello di un colpo di pistola; poi ne seguì un altro e un altro ancora.
Quando arrivarono le forze dell’ordine, e l’ambulanza, la stanza era un luogo dell’orrore. Le aveva sparato alla tempia, mentre lei dormiva; dopo un amplesso consumato in fretta. E lei dormiva adesso un sonno eterno; un rigagnolo di sangue scendeva sul suo viso, seguendo un ricciolo ormai ispessito dai grumi della coagulazione, e gocce di lacrime segnavano le sue pallide gote. E ancora sorrideva, come se fosse felice di essere volata nell’eterno. Il suo corpo era seminudo, e le sue tette acerbe erano esposte, come quelle di una Venere appena nata dalle acque del mare. Sembrava un quadro nella tragica realtà di quel momento. Lui invece le stringeva forte la mano, con la sua sinistra, come se avesse ancora paura di perderla, o la volesse tenere a se unita in un legame. La sua mano destra invece reggeva ancora la pistola. Si era sparato in bocca dopo essere stato certo di averla uccisa. Non c’era sorriso sul suo viso, ma solo una smorfia, quella di una infelicità senza più fine. E quei proiettili erano usciti dalla zona occipitale, disegnando due “Soli” sulla parete a lui retrostante. Erano morti insieme, nel fior degli anni, ed il motivo non si è mai saputo;…si può solo supporre.
Quel ch’è sicuro…è che l’amor non li ha divisi nemmeno nella morte. Anzi li ha uniti ancor di più in quell’eterno ed estremo sacrificio.
Ricordo il lor trasporto nello stretto ed angusto corridoio, sulle barelle; e quel sangue gocciolante a terra, che ha lasciato il segno suo per sempre su quei lastroni di poroso marmo, lucidato appena.
L’amore a volte può uccidere, pensai io,…e in modo atroce. Così erano morte due anime innocenti, forse per colpa di un legame ostacolato da genitori egoisti, senza comprensione alcuna né discernimento, o forse perché avevano perso la speranza nel futuro.
Ma si può morire anche senza ricorrere alle armi. Si può morire pure con l’essere ignorato , oppure mobizzato, come lo sono io in questo momento, a distanza di circa trent’anni da quell’evento.
Ricordo ancora, e con nostalgia Anna, la mia lei di allora; …quella che fu la mia donna. Ricordo il profumo della sua pelle, il suo sorriso, il corpo suo disegnato a modo, i suoi dolci discorsi e la melodia dei suoi suoni gutturali,…e avverto ancora l’incedere dei suoi passi.
Ricordo la sera quando l’accompagnavo a casa dopo essere stati tutto il giorno insieme. E ricordo una sera in particolare…, quando fummo fermati da un uomo con la pistola, che voleva i nostri soldi, in un vicolo stretto, angusto e buio. Non reagii perché vidi che era un uomo disperato. E la mia dialettica fece il suo corso di persuasione. Gli dissi che eravamo due studenti squattrinati, iscritti in medicina; potevamo aiutarlo in quel modo, se avesse avuto bisogno, agevolandolo nelle cure o in un ricovero; soldi non ne avevamo. Gli dissi di svuotarmi pure le tasche se non mi avesse creduto. Avrei potuto dargli il mio orologio, e pure glie lo offrii; …ma lui non lo volle. Poi mi raccontò la sua disperazione. Mi disse che era appena uscito di galera e aveva moglie e figli da mantenere. Ci aveva detto: “è una pistola vera, credete che non spari? Vi faccio vedere!”, e aveva puntato la pistola sopra un mucchio di rifiuti; ove gatti randagi cercavano di calmare la loro fame frugando in tutto, con un miagolio che sembrava il pianto di un neonato.
“ No, le credo!”, risposi io. Magari un colpo di rimbalzo avrebbe potuto far male a noi o a qualcun altro di passaggio.
Parlò ancora, e tanto, e si sfogò, finché fu poi sereno e la ragione prevalse sul suo stato. Allora ci condusse in un piccolo bar, lì vicino, e ci offrì il caffè; …dicendo al barista: “pago dopo! Quando potrò farlo!”. Il barista non proferì parola, ed abbassò il capo in un cenno di assenso. Da quel gesto capii che si conoscevano da tempo.
Poi ci accompagnò in corso Tukory, un corso principale, di quel Palermo degli anni settanta, bella e misteriosa come sempre; quindi si accomiatò dandoci una pacca affettuosa sulle spalle, e facendoci la paternale: “siate felici voi e proseguite per la vostra strada, il bene paga; …voi che potete e siete fortunati!”
Lo vidi sparire inghiottito dalle tenebre, in quel vicoletto da dove eravamo prima usciti. Avrei potuto anche reagire, facevo arti marziali in quel tempo, ed ero vissuto sempre sulla strada da cui avevo appreso pur la barbara lotta senza regole; ma avevo anche imparato a controllare me stesso e a tentare prima sempre la mediazione non violenta, ancora più efficace della lotta, e senza rischio alcuno. Ed era andata bene anche stavolta, il mio buon senso aveva prevalso. In quel momento capii che la manipolazione aveva una parte importante nella vita. I politici sanno bene cos’è l’arte della manipolazione, e la adoperano spesso portando il popolo dove vogliono loro.
Anna era contenta e soddisfatta di come erano andate le cose, e si strinse ancora più forte a me; mi disse che aveva avuto davvero paura, tanta paura, ma che con me si sentiva sicura. E colse l’occasione per dirmi che la sera quando rientrava a casa tardi un uomo puntualmente l’attendeva al suo passaggio, mostrandole gli organi genitali; e mi disse che lei fuggiva sempre terrorizzata ed atterrita.
Le dissi che, appena avessi avuto un po’ di tempo, l’avrei accompagnata io sino alla sua casa, e non solo alla fermata del pulman, come facevo sempre. E quel dì al fine venne.
Arrivati nei pressi della sua casa, le dissi di camminare innanzi come se fosse sola, che io l’avrei seguita a breve distanza. La strada era come sempre semibuia.
Ma ad un tratto un’ombra tetra uscì dal buio di un vicolo ed incominciò a seguirla e a pedinarla. “Ci siamo!”, pensai io fra me e me. Ed affrettai il passo, tenendomi silenzioso.
Quando lei fu vicino alla porta del suo condominio, prese la chiave e la infilò nel nottolino; allora l’uomo tirò fuori i suoi organi genitali dalla patta dei pantaloni, con lo sguardo fisso sul viso di lei.
Fu il momento da me tanto atteso. Gli piombai dietro ed un tremendo mio calcio gli arrivò fra i glutei, nel perineo, giungendo fino ai suoi testicoli. L’uomo stramazzò a terra senza fiato, paonazzo e sul suo viso comparve una smorfia di dolore, e si agitò a destra e a manca in preda a spasimi.
Diceva, piagnucolando: “io sono bravo! Io sono bravo! Non volevo fare alcun male, alla ragazza. Sono malato. Sono solo malato!”. Smisi di picchiarlo solo quando mi accorsi che le mie mani erano bagnate del suo sangue e che la sua bocca era diventata una rossa sorgente.
Al che lo presi per le spalle, alzandolo di peso, e gli urlai: “sparisci porco! Se ti becco ancora da queste parti ti do il resto!”.
Lui si dileguò in un baleno. Appena in tempo perché la sirena della volante, chiamata da qualcuno che aveva sentito il trambusto e le voci concitate, incominciò ad udirsi sempre più vicina, e poi si intravide a distanza la luce azzurrognola del lampeggiante. Anna mi fece entrare in fretta nel suo condominio e chiuse dietro di se il portone. Poi mi condusse nella sua cantina, ove c’era un rubinetto e un lavandino , e mi fece lavare bene le mani con del sapone. Stetti un po’ con le orecchie tese per sentire il rumore di passi od il vociare. Ma nessuno entrò nel palazzo. I poliziotti si limitarono solo a dare uno sguardo attorno e poi andarono via.
Ci sedemmo allora sugli scalini del seminterrato, scambiandoci le ultime dolci effusioni e tenere coccole prima del distacco.
Un silenzio innaturale regnava fuori; era tornata la quiete. Salimmo nell’androne dell’ingresso e le sfiorai le labbra con un bacio, la strinsi forte, e poi le dissi: “buona notte! …dormi bene e pensami.”. quindi mi accomiatai.
Uscendo fuori mi guardai attorno, non c’era nessuno. Trasalii per un momento allo sbattere del portone che si era chiuso, spinto dal meccanismo a molla, dietro le mie spalle. Per un attimo mi era sembrato di sentire un vero e proprio sparo. Poi vidi il viso di lei alla finestra della sua camera e la sua mano che mi faceva un cenno di saluto. Allora mi incamminai, accennando anch’io un saluto. Poi mi incamminai sulla via del ritorno, girandole la schiena.
Ormai era tardi e i pulman avevano terminato la loro ultima corsa. Quella notte avrei fatto una lunga passeggiata nei meandri bui della mia Palermo. Lei abitava alla parte opposta della città, di dove abitavo io.
Palermo di notte era silenziosa, e l’illuminazione, fatta al risparmio, nelle zone periferiche, le dava un’aria fitta di mistero. Nella mente facevano eco voci distanti, come nelle gallerie sotterranee dei “Beati Paoli”. Sul selciato si sentiva solo il rumore dei miei passi cadenzati, ritmati, come quelli del marciare di un soldato.
Presi la scorciatoia fra vicoli stretti e angusti, e antiche strade, per fare prima. Ormai il sonno incominciava a bussare al mio cervello. Ero stanco. Troppe cose erano accadute in quel dì funesto. Odori ancestrali fluttuavano nell’aria. Erano odori di muffe e di cibi cucinati al risparmio, odore di stoffe e di legno stagionato. Erano odori di stalle, nelle quali erano riposti i cavalli di traino delle carrozze lucidate a festa, che permettevano la sopravvivenza a tanta gente senza studi o mestiere alcuno. Tali odori si mescolavano insieme evocando il profumo di incensi magrebini. Per le vie non c’era nessuno. Sembrava di trovarsi in un deserto. L’aria salmastra del mare, intrisa di salsedine, spinta dalla brezza che soffiava sulla città, faceva bruciare le mie labbra ed i miei occhi.
E dopo un’ora, o più, mi ritrovai dietro la Cattedrale. I sassi levigati della strada, prima dai passi innumerevoli di secoli di storia e adesso dalle numerose auto, sembravano nella notte lucidate a specchio. Erano lì dal sorgere del borgo, e non erano mai stati rimossi.
Passai sotto il doppio arco della stradina adiacente a quel tempio di fede e volsi il mio sguardo a sinistra per ammirare la maestosità di quella chiesa. E le quattro torri, la cupola centrale, il suo ingresso triforato, le mura merlate ed il recinto balaustrato, con le sue colonne in pietra e marmo, alla luce dei lampioni mi lasciò estasiato.
L’illuminazione notturna era sublime e la esaltava in tutto il suo splendore. La faceva apparire come una venere dal mare sorta, o forse più. La oltrepassai a passo lento per assaporare quella magica atmosfera, e mi recai verso Piazza Indipendenza, passando per la stradina adiacente al Palazzo dei Normanni. Al fine ero a casa, in Viale delle Scienze, vicino ai Giardini Reali.
Immerso nella contemplazione delle bellezze di Palermo non avevo sentito la fatica del percorso. Salii gli scalini dell’ingresso del palazzo ed entrai nell’androne. Il portiere stava sonnecchiando. Non gli chiesi neanche le mie chiavi, avevo quelle di riserva, le copie che mi ero fatto fare per ogni evenienza. Presi l’ascensore e salii al mio piano. Aprii la porta lentamente, per non disturbare i vicini. E mi buttai sul letto, dopo essermi tolto solo le scarpe. Era ancora disfatto ed odorava ancora di lei. Abbracciai forte il cuscino e mi addormentai in un sonno profondo, sentendola accanto, popolato di meravigliosi sogni, quasi fiabeschi.
Ma dove sono finiti ora quei momenti? Dov’è finita quella meravigliosa estasi? Dove sono finiti quel Sole e quell’odore di mare della mia Trinacria? Dove è finita la voce dolce dei miei isolani, che stavano a sentire tutto e tutti; …sempre pronti a dare saggi consigli, ed una mano a chi ne avesse avuto bisogno. Ora son qui, solo pur fra tanti. Solo in un Piemonte che vale poco o niente. In un Piemonte in cui c’è solo correre e lavoro, …dove non c’è neppure amore, ma solo vana illusione. Dove la realtà dura anche annulla, in un abbagliante flash senza colori, il giusto vivere.
Qui non c’è rispetto o affetto ma solo corruzione. C’è solo sesso sterile, e droga i cui metaboliti scorrono nel Po dopando pure i pochi miseri pesci sopravvissuti alle secche estive, che euforici per l’ “overdose” boccheggiano e saltellano impazziti sulla superficie scura dell’acqua.
“Penso a Palermo”, e mi sento rivivere. Bramo la mia terra, nella mia triste solitudine. Bramo i visi cari e la mia isolana gente. Bramo le brune zolle della mia Terra e le melodie dei suoi uccelli canterini, l’odore delle zagare della mia Conca d’Oro e quello delle ginestre alle pendici degli adiacenti monti. Bramo l’odore del sesamo e della ricotta di pecora appena fatta e pure il vociare concitato che viene fuori dai mercati di Ballarò, del Capo e della Vucciria, e bramo il mio dialetto siculo, misto di accenti e di cadenze gutturali e suoni astrusi.
Già i miei occhi brillano, accarezzando il biglietto aereo, che il fattorino mi ha appena recapitato: “Torino-Palermo”, solo andata.
Io qui in Piemonte ho tutto. Ho la ricchezza, una bella casa, una bella auto, ma non m’importa rinascerò daccapo. Rinascerò dalle mie ceneri come fa l’ “Araba Fenice”.
Inizierò come se fossi nato solo oggi, ma ricco dell’esperienza dei miei …anta.
Già vedo nei miei pensieri il fumo dell’Etna, che mi segnala la via del Figliol Prodigo. Di quel figlio che ha seguito una passione, mettendo da parte tutti i suoi princìpi, ed ha capito solo ora che così facendo ha sol fallito.
Ma, nella vita, a tutto c’è rimedio! Andando avanti si può tornare indietro. Si può domare l’indomito puledro, stringendo forte le briglie e le sue redini.
Torno nella mia Terra, da dove son partito, e a cui appartengo. Torno da Lei e sui miei amati lidi conosciuti e che mai ho dimenticato. Il mal dell’anima lo lascio alla sua casa, al mondo dell’interesse di mercato. Io voglio affetto! …quello della mia terra e del mio mare e del mio sole; …quello della mia gente e dei miei affetti.
Sceglierò te
E a quel punto sceglierò te,
quando guardandoti negli occhi sentirò il mare accarezzarmi il cuore.
Sceglierò te,
quando sentirò le tue parole dare vita ad ogni mia cellula cerebrale.
Sceglierò te,
quando le tue carezze sapranno essere il vestito perfetto per la mia pelle.
Sceglierò te,
quando mi cullerai col pensiero ed io ti sentirò vicino anche nella distanza.
Sceglierò te,
se mi lascerai viaggiare dentro la tua vita.
Sceglierò te,
se mi sentirò a casa dentro al tuo abbraccio.
E sceglierò te,
quando mi camminerai sul cuore senza soffocare il respiro.
E saprò che sei tu,
perché la tua anima toccherà la mia ogni qualvolta ti stringerò le mani.
Solitudine
Guardare intorno
non veder nessuno,
trovarsi solo tra i lampi
tra le nuvole, tra la pioggia,
trovarsi solo tra i bambini
che piangono,
trovarsi solo tra le mamme
che gridano,
trovarsi solo tra pezzi umani
massacrati da un’oscura follia.
Solitudine: libertà negativa.
Solo la morte libera
dal dolore solitario di vivere
e l’anima si leva leggera
sgombra da ogni pena,
e i sorrisi regalati
le emozioni date
troveranno finalmente
il loro appagamento
nell’immenso silenzio
di un’altra vita.
Vita senza speranza
Mattia ha 10 anni, era un bambino come tanti altri.
Gli insegnanti lo ergono a modello perché nonostante le condizioni di salute è il primo della classe.
Trascorre in un ospedale del nord Italia una settimana al mese, ma i compiti li fa lo stesso.
E’ una famiglia distrutta, Mattia è figlio unico.
Totò, il padre, sta uscendo pazzo; i medici sono stati chiari, la rarissima forma della malattia diagnosticata al figlio non da speranze ne molto altro tempo.
Il destino si è accanito contro di loro, mamma Agata ha scoperto da poco di avere la stessa patologia del figlio in fase embrionale.
-Che strano- hanno detto i medici chiedendo possibili fattori di rischio comuni a Totò; lui ha scrollato le spalle.
Da un po’ è fuori di testa, chi non lo sarebbe al suo posto?
L’ultimo ciclo di chemio subito da Mattia non ha sortito gli effetti delle altre volte, Totò ha un triste presagio.
-E’ finita- pensa, con la morte nel cuore.
Agata tenta di farsi coraggio, di nascondere a se stessa ed al figlio l’atroce verità, ma Mattia l’ha capito; anche se è imbottito di farmaci ha capito perché alla madre cominciano a cadere i capelli.
I continui viaggi rendono tutto più difficile, se gli ospedali siciliani funzionassero non ci sarebbe questo calvario nel calvario.
Totò e Agata non possono contare nemmeno sull’aiuto dei familiari; la loro non è una famiglia qualsiasi, i Macaluso sono mafiosi di lunga data.
Da quando è stato ucciso Rosario, padre di Totò e capo della famiglia, quante cose sono cambiate; gli amici sono diventati nemici e vogliono tutto quello che hanno.
Totò ha guardato impotente i propri fratelli insultati e poi pestati a sangue da sciacalli che non avevano mai contato nulla nell’organizzazione, poi ha assistito impotente al loro arresto anche se, in fondo è stato meglio; almeno li dentro non c’è pericolo che li ammazzino.
Gli altri parenti e gli amici, quelli che elemosinavano un posto di lavoro , non ne vogliono sapere più niente. Che vigliacchi!
Ora sono soli, completamente soli.
A Totò un amico è rimasto: il rimorso. Ogni volta che mette i piedi sulla scaletta dell’aereo comincia a pensare cose che per tutta la vita non lo avevano mai nemmeno sfiorato.
Senza la malasanità Mattia non guarirebbe, ma almeno non vivrebbe la sofferenza di questo esodo forzato.
Il fatto è che gli ospedali non funzionano per colpa della mafia, o per meglio dire di quel groviglio d’interessi politico mafioso che è alla radice del problema.
Quanti primari aveva fatto nominare la famiglia Macaluso? Tanti, tantissimi.
Costoro sono stati manovrati per pilotare gli appalti, gonfiare le spese e dirottare una pioggia di milioni sulle famiglie; ma di questa grande ricchezza a Totò non è rimasto nulla, hanno sequestrato tutto.
E poi a che servono i soldi, le proprietà, quando tuo figlio sta così?
Gli stessi medici amici degli amici hanno allargato le braccia.
“Totò, tu a tuo figlio lo devi portare a Milano. Lo sai che qui le cose non funzionano, proprio tu lo dovresti sapere. Provenzano non se ne andò a Marsiglia? E tutti gli altri boss non se ne vanno fuori? Se avveleni l’acqua devi sapere che non devi berla”.
Parole pesanti da digerire.
“Se mio padre era vivo così avresti parlato? Mi dovresti baciare le mani”.
Ma i tempi sono cambiati, i Macaluso non contano più nulla; lo sanno pure i medici che ora fanno affari con le altre cosche.
Il meccanismo è semplice e va avanti da anni; ogni appalto è truccato, manipolato, gonfiato ed il bottino illecito viene spartito tra gli uomini con la coppola e quelli in giacca e cravatta.
Una volta c’era una ben precisa corrente politica che camminava a braccetto coi padrini, ma da un punto in poi sinistra e destra si sono seduti allo stesso tavolo per dividere la torta.
Non a caso un pentito ha battezzato questo sistema “u tavulinu”.
Totò lo sa benissimo che la propria famiglia era ai vertici di questo sistema; sprofonda nella poltrona, un mostro invisibile gli sta divorando l’anima.
Si sente in colpa, per Mattia e tutte le persone costrette a farsi curare fuori dalla Sicilia, perché questo aggravio di sofferenze potrebbe essere evitato.
Ma non è solo questo, uno negli ospedali entra vivo ed esce morto perché ci sono i medici piazzati dai boss o nominati dalla politica per indebolire la cosa pubblica a vantaggio delle cliniche private gestite pure loro dalla mafia: è un circolo vizioso.
Finora non era importato, i morti erano numeri; uno, due, dieci, cento, mille.
Numeri che fanno numeri. Centinaia, migliaia, milioni di euro da spartire.
Ma Mattia non è un numero, è fatto di carne; “sangue del mio sangue” pensa Totò mentre guarda il suo piccino addormentato.
Un conto è mandare a morire un estraneo, un altro vedere tuo figlio combinato così.
Le palpebre sono pesanti, sembrano macigni; senza accorgersene Totò si addormenta di un sonno che sembra realtà.
Rivede se stesso da giovane, forte e spensierato; all’epoca era autotrasportatore nella ditta di famiglia, nessuno lo costringeva a farlo ma a lui piaceva.
Suo padre gli diceva che non doveva lavorare come un picciotto qualsiasi; poteva starsene in ufficio con una gamba sull’altra oppure girare per gli incassi.
Ma lui no! Gli piaceva girare col camion per i paesini, voleva vivere come uno qualsiasi, o almeno farlo credere.
Si rivede mentre porta il camion, col braccio sinistro abbronzato fuori dal finestrino, la canottiera blu intrisa di sudore ed un cappello di paglia consunto sulla testa; Mattia è appena nato, c’è una sua foto sul parabrezza.
La famiglia gestiva la nuova frontiera del business che prometteva soldi facili; a Napoli si stavano arricchendo con questo sistema.
Smaltire rifiuti tossici è un lavoro facilissimo se hai le coperture giuste; ed i Macaluso tenevano la politica in un pugno.
C’era una grossa area alla periferia di Palermo, dovevano farci un parco pubblico ma gli assessori all’urbanistica che si sono succeduti negli anni si sono guardati bene dal realizzarlo; d’altra parte erano pagati dalle famiglie per questo, cioè per non far nulla.
Per due o tre anni Totò ha sversato in questi terreni ogni sorta di veleno; tutto è stato ricoperto ovviamente, un lavoro pulito.
Poi gli sbirri drizzarono le antenne, gli ultimi carichi Totò non sapeva dove metterli ma intanto quella roba doveva sparire perché chi pagava pretendeva.
Totò ci pensa come se fosse ora; era ancora più facile.
Avevano un terreno appena fuori città, gli ultimi carichi finirono laggiù al riparo da occhi indiscreti.
Il papà di Totò aveva la terza elementare, non sapeva manco cosa fosse la chimica, decise di costruirci una villetta su quel terreno.
E la fece bella, col tetto spiovente, la piscina e un giardinetto dove Mattia potesse giocare.
Scavarono un pozzo abusivo per l’acqua, i mafiosi non pagano bollette.
Mattia correva a perdifiato su quel terreno, sudava e gli veniva sete; e quando aveva sete urlava a mamma Agata “Sto morendo dalla sete”; e la mammina apriva il rubinetto, riempiva una bella bottiglia di acqua fresca e lo faceva bere.
Com’era buona. “E’ più buona di quella di Palermo” gridava Mattia.
Quanto tempo è passato, Totò il camionista non lo fa più, tira una brutta aria.
Il nuovo assessore è un cretino ecologista, figuratevi che quei giardini alla periferia est di Palermo li ha recintati e ci ha fatto un parco; lo hanno chiamato parco Ninni Cassarà.
Neanche il tempo di aprirlo e lo hanno chiuso perché pare ci sia l’amianto dentro, quella robaccia che inquina le falde acquifere.
Chissà quanti bambini si sono già avvelenati, chissà quanti pagheranno il conto della vigliaccheria mafiosa.
Totò ha sprangato il villino ed ha chiuso il pozzo, ma questa storia non l’ha raccontata a nessuno, forse per questo gli rode dentro l’anima.
-Papà stai dormendo? -No ho chiuso soltanto gli occhi.
-Quando torniamo andiamo al villino? -Certo che ci andiamo.
“Signore e signori il comandante vi invita ad allacciare le cinture di sicurezza”.
L’aereo si impenna e plana su nuvoloni carichi di pioggia, li oltrepassa puntando verso il sole che oggi emana raggi accecanti, non vi è riparo per chi deve fare i conti con la propria coscienza.
I cancelli del parco “Ninni Cassarà” di Palermo ad oggi rimangono chiusi, muta testimonianza di un periodo della storia siciliana che è nostro dovere ricordare per creare una nuova coscienza nelle generazioni future.
La mafia non è solo pizzo, i suoi tentacoli arpionano in mille modi diversi stritolando gli uomini e le proprie vite in una morsa fatta di vigliaccheria e soprusi di cui tutti paghiamo il conto.
Quello più salato lo pagano loro, i mafiosi e le loro vite senza speranza.
Occorre parlarne, scriverne, farne poesie, canzoni, film; chi può lo faccia.
Nessuno rimanga in complice silenzio.